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Quarto post

Domenica 11.05.2014, ore 15:10

Una quarta noiosissima pagina di parole al vento attende di invadere questo blog del nulla, dei discorsi insulsi e vuoti, di aria , di vento che può solo spostare qualch foglia secca. Dovrei studiare, ma ovviamente la voglia è ben altra. le voglia, anzi. La voglia di abbracciare la persona che amo, e l’impossibilità di averla qui; la volgia di correre fuori a farmi un giro in bicicletta, libero dal mondo, e l’impossibilità causa impegni scolastici; la voglia di spaziare nel mare immenso della fantasia, steso sul letto ad occhi chiusi ascoltando musiche remote che mi portano lontano, naufrago felice di una civiltà scomparsa. La cosa che più mi colpisce di questo mondo è la stretta connessione che ci sia fra il nostro mondo intimistico e quello sociale. Il modo in cui noi possiamo, contemporaneamente, vedere lontano, spaziando lo sguardo verso la società, l’economia, la politica, il futuro non nostro ma dell’intera umanità, e vedere vicino, ai nostri amici, ai nostri amori, alle piccole, minuscole cose della vita che ci colpiscono in egual modo.
Trovo che ciò sia tragicamente straordinario.
Come facciamo a venire colpiti allo stesso modo da una notizia di un’attentato e da un litigio con la morosa? Come possiamo preoccuparci egualmente di un genocidio compiuto pochi chilomentri da noi e di un litigio con un nostro amico? E come possiamo gioire egualmente di un successo elettorale come di una bella giornata passata assieme ad una persona della nostra vita? Noi, uomini, siamo l’unica razza di esseri viventi che riesce realmente a far coesistere, oltre all’universo familiare, anche quello sociale. Siamo i soli esseri viventi che ci identifichiamo in un’entitò di persone che nemmeno conosciamo e mai conosceremo, diverse da noi per milioni di aspetti, ma che ci appaiono sempre e comunque vicine e parte di noi stessi (a dispetto di tutti i sentimenti preistorico-razzisti che in parte ci portianmo dietro dal nostro passato animale). Quel che mi sconvolge è il coesistere, perfettamente equo, di questo: esso è il coesistere delle nostre due parti dell’animo, l’istinto e la ragione.
Istinto, passione, pathos, carica emotiva, inesplicabile gioia e dolore mischiati assieme a formare un groppo sotto al collo che può significare infinito piacere come infinito dolore. Un’ammassarsi informe di colori che decidono istante per istante come mescolarsi, creando poesie di luce come vivide immagini infernali: è l’irrazionalità di cui siamo, felicmente, schiavi, retaggio del nostro passato animale ma forse, secondo me, anche elemento che ci impedisce di essere brutali macchine, insensibili esecutori del nulla, mostruosi sterminatori. La passione è ciò che ci consente di camminare, senza di essa resteremmo fermi, incapaci di trovare un ben che minimo motivo per vivere. Perchè io vivo? Per vedere la felicità nel volto delle persone, e poter dire “io servo a qualcosa”: alla fin fine è questo che siamo, è per questo che viviamo. Io vivo perchè so che un giorno, per quanto lontano possa essere, vedrò il mio Amore sorridere quando mi vede arrivare. Io vivo perchè so che con gli amici la mia sciocca simpatia, la mia sadica autoironia, il mio folle volare della fantasia alla massima velocità provocherà un sorriso sui loro volti, e tutto il male che li affrange somparirà, e leggeri rideranno di me, e leggeri cominceranno a lievitare sereni nella nebulosa del piacere. Io voglio fare il medico non perchè mi interessi, non perchè mi offra possibilità di guadagno sicuro, non perchè sia un ruolo elitario e riverito nella nostra società di anime dannate che temono la morte: voglio fare il medico perchè posso aiutare qualcuno. Voglio fare il medico per poter dire che salvo la vita a delle persone, per poter dire che la mia esistenza non è sprecata, ma è investita, è UTILE a qualcuno. Per essere utile a qualcuno, perchè essendolo troverò un motivo per vivere ancora.
Ragione, razionalità, calcolo probabilistico, visione utliltaria, pacatezza e coerenza, furbizia, inganno, obbiettivi vividi da raggiungere ad ogni costo. Ecco ciò che ci salva, o ci danna. La ragione, ciò che ci distingue da una bruta scimmia: la capacità di bloccare l’istinto, di ragionare su ciò che si sta per fare e di scegliere la strada migliore. La ragione ci impedisce di fare danni, la ragione ci permette di scalare la montagna della vita molto più velocemente ed abilmente di chiunque altro. La ragione ci permette di evitare gli errori, do soffrire di meno ma allo stesso tempo di gioire di meno. Pariamo dall’assunto di base: la ragione è la serva dell’istinto. Noi non viviamo di ragione, non siamo ancora freddi esecutori di direttive, non per ora almeno. Possiamo diventarlo, alcuni di noi lo sono già diventati, ma (per fortuna) i nostri simili Eichmannici sono una minnoranza, e lo rimarranno finchè l’istinto che ci perquote non sarà così forte e violento che il nostro inconscio deciderà di eliminarlo, quasi un’anticorpo della psiche, per farci restare automi disumani. Finchè ciò non accadrà, la ragione resterà a servizio dell’istinto, limitandolo e contenedolo in dei confini più o meno sicuri: la ragione ci impedirà di suicidarci se un grave fatto ci accoltellerà il cuore, la ragione ci rialzerà quando cadremo nella disperazione, la ragione ci farà trovare la forza di ricominciare a camminare riagguantando tutto ciò che abbiamo perso per strada, presi dall’istinto. Il problema, almeno per me, è attivarla nel momento giusto: quante cazzate ho fatto per l’istinto, quanti problemi inutili, quanti dolori, quante sofferenze per nulla! Se solo la ragione mi avesse preso per tempo, allora non sarei caduto, allora avrei capito, allora non avrei trascinato per terra con me persone che non centravano nulla! Ragione, bene effimero e talvolta traditore, che si scatena per limitare il bene ed il male, ragione che io ho lasciato a volte agire senza istinto. L’ho fatto di recente, l’ultima volta, e me ne sono pentito amaramente, tanto amaramente che sono conscio di non poter mai ripagare per il male che ho fatto,e di non poter mai ricucire la ferita che ho brutalmente aperto sul petto del mio Amore. La ragione liberà è il peggior castigatore, il peggior aguzzino, la peggior macchina di morte che possa esistere. la ragione del male è brutale, spietata, disumana, mostruosa come me, un mostro che si nasconde a fatica dietro il suo bene, ma che non è sempre contenuto: il mio male esce violento quando non riesco più a contenerlo, e si scatena, furia micidiale, su tutti senza distinzioni. Se un giorno dovessi perdere il mio istinto, se un giorno esso lasciasse definitivamente le redini della ragione che reciprocamente lo limita, mi ucciderei prima di poter fare ciò che nemmeno voglio immaginare. La mia cosciente follia esistenziale si scatena su queste righe, tanto che voi lettori, lo so per certo, vi duolerete del rendervi conto di quale bestia infernale possa io essere, ma cosa posso dire, se non dirvelo, per salvarvi? Pensate che esageri? No, mi dispiace deludervi, ma dalla mia famiglia non poteva uscire che questo: una mente spiccata (e lo dico senza volermene vantare) ma spiccata sia nel bene che nel male. Un’esagerazione, un’utopico mostro allungato ai suoi estremi, che fondamentalmente soffre del non riuscire a trovare ancora quell’equilibrio che lo renderebbe una persona normale, accettabile, un’uomo.
Nella tradizione classica il suicidio era un’atto di coraggio, era onorato nel caso in cui il protagonista, resosi conto dell’impossibilità di continuare a vivere all’interno del genos (la stirpe, la famiglia, ma più in generale la comunità), si uccide per salvare la sua dignità e la salvezza delle persone a cui vuole bene. Deianira, folle di amore per un marito che non la ama e la tradisce, cerca di farlo tornare a se con il filtro d’amore di Nesso: quel filtro è però un veleno, ed Eracle impazzisce facendo strage di Lica, il fedele amico. Deianira, che aveva usato la ragione per placare il suo istinto di intenso amore non ricambiato, impazisce per l’orrore commesso, e comprendendo l’impossibilità di poter continuare a vivere dopo ciò che ha fatto, si impicca. L’impiccaggione per la donna, e la morte gettandosi sulla spada per gli uomini: Aiace folle, una volta uscito dal suo delirio di follia (cioè di istinto) si uccide sulla spiaggia, gettandosi sulla spada. Non può sopportare, come Deianira, la consapevolezza di essersi macchiato di una colpa tanto grande, non potrà mai più guardare in faccia nessuno senza vergogna profonda, non gli sarà più possibile vivere: ecco allora che muore. Una morte per il preponderare della ragione, quella di Deianira, ed una morte per il monopolio dell’istinto su tutto il corpo, quella di Aiace. Sono passati duemilasettecento anni, ma l’uomo è sempre lo stesso, e le soluzioni che trova, le più sagge, sono sempre quelle finali ed estreme. Ciò che nessuno mai capisce e mai capirà, è che il gesto di Deianira, come quello di Aiace, è ciò che di più grande possa fare una persona per dimostrare il bene che vuole a chi ama: colpevole di amare troppo, Deianira scompare per non fare altro male alla persona a cui mai e poi mai avrebbe voluto farne. E’ la mostruosa ingiustizia del mondo, la più grande espressione di dolore ed amore che mai, in nessun altro modo, potrà essere espressa.

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Terzo post

Lunedì 05.05.2014, ore 18:02

Oggi voglio scrivere di qualcosa di davvero incomprensibile: l’amore. Dio mio, quanti saranno i temi scritti da innamorate ragazzine adolescenti, quante le lettere d’amore inbucate nelle infinite cassette delle lettere, reali e virtuali che siano? nel mio caso più di 100, ormai. Perchè?
L’amore, ne parlo oggi, una giornata in cui temo che possa sparire dalla mia vita. L’amore che mi ha fatto fare follie, che mi ha fatto provare emozioni che non conoscevo e che non credevo fosse possibile esistessero, l’amore che mi ha spinto a cambiare me stesso, quel fuoco sconosciuto che ho scoperto solo quest’anno poter fare ciò che mille consigli, mille sussurri, mille errori e mille cadute non mi hanno mai insegnato. L’amore, prima di tutto, è il più grande maestro di vita che io abbia mai incontrato. “Perchè queste cazzate?” vi chiederete, e vi risponderò: perchè è vero.
E’ vero perchè amare una persona è ben altro che quello che si impara sin da bambini, va ben oltre quel che si sogna stesi su un prato in estate a guardare le nuvole, lungi dalle coppiette che si baciano sui ponti, affrontando spensieratamente il futuro. L’amore è un grandissimo, forse il più grande, banco di prova che possiamo avere. Perchè amare vuol dire, secondo me, prendere se stessi e plasmarsi per la persona che si ama. Mettersi in discussione, accettare i propri difetti come i propri pregi. In amore, l’amore vero che dura oltre i primi mesi di folle innamoramento, non c’è spazio per i romanticismi, ne per le lusinghe, la falsa umiltà, le finzioni e tutta quella compagine di belle ed ipocrite maniere che si imparano leggendo Cenerentola. L’amore vero non permette di nascondere se stessi, esso impone con ferrea ed ineluttabile decisione di aprirsi con infinita sincerità all’amato, rischiando di perderlo, e mutare forma, aspetto, carattere per lui. L’amore vero vuol dire non solo accettare i propri difetti, ma scoprirne di nuovi, ed impegnarsi a curarli tutti, uno dopo l’altro. Non sarà mai un’amico a convincerci che la nostra arroganza è fastidiosa, mai le mille sgrida di una madre ci insegneranno che il nostro carattere merita una regolata: solo la calda voce che melliflua scende dalle labbra sensuali di quell’Angelo che sognamo ogni minuto che passa può convincerci, in un solo istante, che siamo in torto.
Perchè? La realtà è brutale. Il motivo io credo risieda nella nostra mera essenza animale: noi siamo fondamentalmente bestie ammaestrate con zuccherini, e l’Amore rappresenta per noi un grande infinito zuccherino. Uno zuccherino mistico, luminoso, magicamente attraente, un frutto segreto della vera e pura felicità, la sola che si possa veramente provare senza che essa cambi nel tempo. Noi quindi mutiamo noi stessi, strisciando umilmente senza più la ben che minima traccia di dignità, dinnanzi a quel fascio fantastico di luce calda, facendo di tutto per non perderla. Insensatezza? Espressione massima della nostra debolezza? Perdita di ogni ragione in favore delle folli passioni che prendono il potere nel nostro corpo straziandoci l’anima?
Io una volta la pensavo così. Oggi non più.
Perchè? Perchè lo so, ora. Ora comprendo cosa voglia dire Amare davvero una persona. Non è la cotta iniziale, non sono le prime settimane di folle gioia a poter essere definite Amore. L’Amore non è necessariamente gioia, paradossalmente. Per me l’Amore è l’occasione di dimostrare a noi stessi, alla persona che amiamo e a tutti quelli che ci circondano che siamo diventat persone adulte. Perchè per mantenere un amore nel tempo bisogna avere una serie di doti non indifferenti, che chiaramente determinano una grande maturità ed una crescita rapida dell’individuo:
UMILTA’
SINCERITA’
CORAGGIO
Questa è la trinità che ci permette di poter assaporare all’infinito quello zuccherino tanto agognato. L’umiltà del saper plasmare se stessi, perdendo anche elementi a cui si teneva enormemente di se stessi, per la felicità altrui.
La sincerità del non nascondere mai nulla, nel bene o nel male, non perchè non lo si voglia fare, ma perchè risulti umanamente impossibile amare una persona e negarle anche la più piccola, stupida ed insignificante verità di se stessi.
Coraggio del non arrendersi al primo scoglio, di lottare ogni volta per un bene superiore, di imparare a cadere facendosi poco male ed a rialzarsi in fretta, tornando a correre più forte di prima. Inciampare spesso, volendo, ma mai smettere di correre, mai arrendersi anche davanti ai mali più grandi.
Questo è Amore. E se siamo capaci di amare una persona così, allora siamo degli Dei. E se non ne siamo capaci, allora dobbiamo lottare per riuscire, un giorno, a diventarlo. No, non è importante quanto tempo impiegherà il lungo cammino dei dolori: quello che conta è raggiungere la meta, sempre più alta, splendida e maestosa, che è il sapere di avere un Angelo custode.
Perchè l’avere un Angelo custode significa che nei momenti più difficili, nelle cadute più rovinose, nella disperazione più assoluta, ci sarà lui che, senza toccarti, con un sussurro ti farà ritrovare la forza di rialzarti e la voglia di rimetterti a correre con lui. E se tu, stanco ed affranto, lo caccerai via quando proverà a sostenerti, lui con uno schiaffone ben assestato ti risveglierà dal torpore, svegliando le membra assopite ed aprendo gli occhi socchiusi. E la sua luce calda entrerà libera nei tuoi occhi, ed il suo respiro fluido scalderà il tuo collo, e la sua presenza, la sua aura soprannaturale, ti eleverà verso i più alti cieli, e piangerai come un bambino di gioia, e canterai come mai avevi fatto prima, e danzerai ebbro di caldi fumi fruttati verso le infinite vie dell’arcobaleno, sfondando ogni portone che innanzi a te si presenterà, scavalcando atleticamente ogni muretto, scacciando a calci tutti i cani da guardia e volerai, libero, sui cieli della Vita, senza che nulla esista, senza che nulla scompaia, senza che nulla finisca. Mai.
Tutto questo, inciso nella memoria, resterà ricordo indelebile del passato: se il tuo amore finirà, se perderai quell’Angelo sorridente, con l’erre moscia e gli occhi che solo il più grande degli Dei può aver creato, nulla di tutto ciò scomparirà da te. Resterà ricordo del più bel momento della tua vita, fonte di gioia e causa di infinita sofferenza per un tesoro perso e mai più ritrovato. Ma tu, piccolo uomo in mondo infinito, poco puoi fare di tutto ciò: solo quella trinità può salvarti, ed allora ti appelli ad essa, con tutto te stesso, naufrago avvinghiato ad un legno galleggiante, sperando che ti possa salvare la vita.
L’Amore vero è più dolore che gioia. LAmore vero è più rabbia che pace. L’Amore vero è una cosa infinitamente complicata, anche se il tuo angelo vola leggero al tuo fianco sorridendoti.

Ma l’Amore vero è Vero, cazzo

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Secondo post

10:30 di Domenica 04.05.2014

Scrivo perchè mi piace scrivere e dire al mondo, cioè a nessuno, che sono un essere pensante. Parlare ad un vuoto di densa nebbia grigiastra, con lontane ombre che veloci scorrono attorno a me e sfuggono in un mare di incomprensibile nulla: questa è la rete. Questo vuol dire scrivere un blog: non è nulla. E’ il sogno della comunicazione impossibile ad immaginari lettori di un misterioso universo attento a ciò che interessa, ma fondamentalmente spinto da una sola forza generatrice: la noia. Si naviga in rete per noia, in cerca di qualcosa che spinga le nostre stanche anime a compiere un guizzo veloce e dimostrare prima di tutto a noi stessi, e poi a chi ci circonda, che siamo vivi. Pallido sogno di vitalità, in realtà è solo una delle tante esperessioni della nostra più squallida qualità umana: l’ipocrisia. Ipocrisia del vivere, del relazionarci, del credere che adattandoci agli schemi comuni, ad uno standard impostoci da noi stessi, possiamo trovare felicità: massì, danziamo tutti, ebbri del nostro nulla!
Questo è il vero contratto sociale. Io mi omogenizzo alla comunità adottando gli stereotipi che essa ha scelto come paletti per il vivere: anc’io sono parte della comunità, ed in minima parte, anch’io ho contribuito alla formazione di ciò. Una compagine gelatinosa di omini tutti appiccicati che, come uno si muove, poi tutti gli altri lo seguono rimbalzando.
Un blob
Che dire, che fare, che posso scrivere? Mah, e poi perchè scrivere? Non ha senso, è solo frutto della mia infinita superbia quel che sto facendo. Ma alla fin fine, io sono così, pure superbo, e quindi me ne dobbiate scusare la veemenza con la quale esprimo questo mio carattere, ma temo ci vorrà tempo per cambiarlo, molto tempo. Una cosa però è certa, cambierà.
Ecco, questa cosa mi stringe l’animo quando ci penso: il modo nel quale nessuno in questo blob uniformato trovi mai la minima scintilla di coraggio per dire “me ne dissocio”. E’ la fobia della solitudine, il terrore che tutto il nostro castello di piani per il futuro (castelli in aria che ci illudiamo di poter avverare), gli amici (compagni di sventura a noi estranei, ma che nella nostra folle illusione consideriamo come bastoni a cui appoggiarsi) e gli amori (palliso ammasso di sentimenti multicolore che pretendiamo con presunzione di comprendere, ma che rimarrano sempre mistero) possano scomparire nel nulla. Incapacità di trovare il coraggio, quell’antica dote tramandata di generazione in generazione, per camminare avanti invece che stendersi a terra arrendevolmente e dire “resto qui, si sta bene”. La comunità è la più grande sicurezza che l’uomo possa trovare, lo è stato da sempre eda sempre la più grande fobia era quella di perderla: il terrore di Edipo che in un giorno si lascia scivolare via tutto ciò che ha è emblematico. Ed egli perde tutto, alla fine, per sua volontà: per il suo desiderio di sapere la verità. La colpa del desiderio di sapere, perchè il voler conoscere, e capire, è punito nella comunità. Perchè quando si capisce si trovano le incoerenze, le ingiustizie, le falsità, il disgusto dell’ipocrisia. Quando si capisce si diventa diversi, perchè non si vuole più fare parte del clan, della tribù, di quell’orgia di finta felicità. Si desidera il vero, con le lacrime agli occhi, e si corre disperatamente alla ricerca di chi la pensi come noi.
Ma Edipo resta solo, scacciato dalla città, cieco, accompagnato dalla sola figlia Antigone.
Lui che si accieca una volta capito tutto. Perchè? Forse per non voler più vedere, per non dover più soffrire, perchè non bastavano più le lacrime, doveva essere sangue a sgorgare dai suoi occhi, una volta per tutte, e poi più nulla. Dolore del sapere, tristezza del rendersi conto di quale sia la realtà, e da quel momento, il non volersi illudere.

Mai più.

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Primo post

03.05.2014

Un primo post

sarà il primo di una lunga serie o resterà piuttosto un tentativo isolato di comunicazione con lo sfaccettato, malleabile, fluido ed inconsistente mondo parallelo della rete? ma chi può saperlo, se non io stesso? No, nemmeno io posso in verità. Penso che questo resterà un caso isolato, un blog visualizzato da nessuno che nessuno mai leggerà, dove un unico ragazzo solitario scriverà da solo per illudersi di aver detto a qualcuno quel che ronza nella sua folle testa. Qualcuno. Nessuno. Tutti.
Qual’è la differenza a questo punto? Non ne ho idea. Che faccio ora? Scrivo un po’, qua e la, del nulla, attendendo che l’ora per prepararsi arrivi. Allora salirò le scale della mia taverna, lentamente raggiungerò l’ultimo piano e mi vestirò per andare ad un compleanno. Sceglierò sbadatamente dei vestiti che mi possano far sembrare simile alla massa, nell’illusione colletiva di questa falsa società, ed attenderò che il mio amico arrivi a prendermi in macchina. Arriverò alla festa, dove con tanti invitati faticherò a trovare la persona che amo, il cui amore temo non sia ormai più ricambiato. La cercherò per salutarla, e poi comincerà il lungo travaglio. Lei scherzerà e riderà con i suoi amici ignorandomi, ed io farò altrettanto, per far che tutto sembri normale. Lei soffrirà paurosamente del distacco che le darò, ed io del distacco che lei mi impone. Prenderò qualche bottiglia di birra e andrò a ridere, scherzare e non pensare con gli amici. Non pensare, questo è il succo del gioco: smettere di ragionare, impedire che la nostra mente umana faccia il suo lavoro. Essere animali, ignorare le emozioni, illudersi in un fantastico universo di luci e colori ricacciando la dura realtà che si presenterà inevitabile ed inesorabile dinnanzi ai nostri visi ipocritamente felici per distruggerci da dentro e sussurrarci all’orecchio “non puoi sfuggire”.
Il dolore di cui è pregna la nostra esistenza ci distruggerà finchè non troveremo la forza di accettarlo, come uomini di tutti i tempi hanno tenatato, a modo loro, di fare una volta capito. Ma quando mi trovo circondato da persone che, anche sapendo questa realtà, la ignorano, io che posso fare? Se io vedo la realtà come loro, ma paurosamente comprendo che loro la rigettano tuffandosi nel mondo della leggera ebbrezza che, come una nebulosa, circonda i loro spinti e falsi sorrisi, cosa posso?

Nulla

Nulla se non guardarli con fare rassegnato, voltarmi senza un sorriso, e camminarmene via, lontanto, solo. La debolezza dell’uomo è qualcosa di incredibilmente stupefacente se comparata alle sue potenzialità. Io vedo la persona che amo soffrire e dannarsi di infiniti mali, terrori, paure che la legano e trascinano via nel vortice della depressione, e cerco in tutti i modi di prenderle le mani per trascinarla via, ma lei le ricaccia piangendo. Ed io mi trovo solo, spettatore inerme davanti all’Apocalisse, a vedere la fine di una vita che scorre via, lasciandosi trascinare dalla corrente dei mali, senza tentare la ben che minima opposizione ad uno scorrere dei fatti che pare incomprensibilmente inevitabile, ma che è in realtà mutabile. Ed è terrore il momento in cui le leggo negli occhi la realizzazione che tutto ciò è evitabile, ma la mancanza di volontà di evitarlo.

Un fiume di donne ed uomini deboli scorre lento lungo la valle, rotolano dai fianchi come pesi morti, sflacellandosi sulle rocce ma senza morire nè perdere coscienza, finchè non si immergono nelle torbide acque. E lì non affogano, ma galleggiano e a testa alta, guardando il cielo, si lasciano trasportare verlo il lontano mare del destino e della Morte. Perchè sono così pochi quelli che stanno in piedi sugli argini a vedere, perchè sono ancora meno quelli che tentano con forza di riagguantarne il più possibile con rudimentali pertiche? Li catturano dallla loro fine come pesci storditi, li ripostano a riva, li asciugano, li scaldano e li nutrono, ma questi, una volta riacquistato il senno, si alzano, e con sguardo vuoto piangono in silenzio, per poi voltarsi e rigettarsi nelle acque da cui sono stati poco prima salvati. E leggo lo strazio nei visi dei salvatori, che sperano ogni volta di poterne salvare qualcuno, quell’unico che con un abbraccio li ripaghi e con un “grazie” respirato all’orecchio li faccia commuovere.
Mai tutto questo avviene.
Ed io mi trovo come loro, senza ben sapere se sono realmente degno di quel ruolo o se è frutto della mia superbia l’essermene appropriato, e cerco con gli occhi stanchi qualche corpo che scorra lungo il fiume della disperazione, agguantando chi mi sembra essere una vittima di quel gioco malvagio, e cercando in tutti i modi di salvarlo da ciò che io ritengo male, e che forse egoisticamente impongo come male a loro. Con nessuno sono ancora arrivato al fatidico momento che ho visto mille volte sulla pelle degli altri, ma ho la paura che forse possa arrivare a breve. La paura, quel fuoco che ti rode l’anima, che ti fa fremere, aumentare il battito cardiaco, respirare affannosamente. La paura. Un nemico. Un alleato. Un maestro di vita. Chi lo sa?

Non rileggo, ci saranno mille errori ma va bene così. Scuse telematiche per dei lettori fantastici