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Quarantatreesimo post

Domenica, 20.02.2022, 9.10

E mi ritrovo qui, a scorrere con i miei occhi le campagne nebbiose, ancora addormentate, che questo treno silenzioso attraversa. Sono le pagine di un libro, pagine che piano piano scivolano lungo le mie dita, sottili e talvolta anche taglienti, se prese dal verso sbagliato. La carta sottile mii accarezza, profuma man mano che la leggo. Profuma di ricordi, di scorci visti e rivisti in questi anni, echi dal profondo del mio corpo, luci nel buio di lunghe caverne inesplorate. È il profumo dei casa mia, il dolce gorgoglio della macchinetta del caffè col manico rotto, il sole che si affaccia sulle pareti gialle dei miei vicini di casa e sulla collinetta che si accoccola sulle pendici dell’altopiano. Mi verso il caffè nella tazza blu piena di latte freddo, e resto li, seduto, a guardare la lampadina al neon che si rispecchia su quella superficie beige, mentre penso. Penso a chi sono ora, a dove sono, a cosa voglio fare della mia vita. Quante storie sono ormai passato per me. Quanto tempo è trascorso per me. È come se avessi appena finito di chiudere la porta di una lunga stanza attraversata, un corridoio che mi ha fatto attraversare tantissimi spazi, ognuno con arredi diversi ed ospiti che ho conosciuto nel tempo. Ognuno di loro ho abbandonato, ognuno di loro ho perso nel tempo, vagando, passeggiando con una sporta in spalla per questi anni. Ho aperto e chiuso porte d’ogni genere, lungo quel corridoio che rimaneva per me l’unico tratto comune, sicuro, come un corrimano a cui aggrapparsi quando si sta per cadere sulle scale. Una sicurezza. Un luogo dove tirare il sospiro ogni volta che una stanza si chiudeva alle mie spalle, con tutto e tutti i suoi contenuti. Sì, io li respirava quando stavo male, e sospirato sorridendo quando stavo bene, per poi riprendere il passo verso le prossime stanze, le prossime curve, le prossime avventure intermedie lungo quella strada.
Ora però l’ho finito. Sono arrivato al capolinea, dove il corridoio finisce. Una porta in legno massiccio, annerita dal tempo e dalla cera, la chiudeva. Non l’ho aperta con tanto indugio, no. Quando ci si trova davanti ad una cosa tanto paurosa, la si può affrontare in due modi: guardandola in tutta la sua possenza, accettandone la sua magnitudine e tremando innanzi a lei, oppure mettendo da parte la razionalità ed abbassando lo sguardo, spegnendo per un istante la propria coscienza e tuffandosi ad occhi chiusi lì dentro, senza pensarci, in apnea. Non penso ci sia un metodo più maturo di un altro, uno più giusto, uno più tattico. So solo che io ho preso una grande boccata d’aria, ho trattenuto il respiro e mi sono tuffato. Si. Solo che ora, a distanza di due mesi, devo ormai tornare su per prendere fiato.
E così torno su. Riapro gli occhi, ancora timidamente, ancora a fatica, con l’acqua che brucia e sfoca la scena che mi si presenta. Il corridoio è ormai alle mie spalle, la sua grande porta lignea l’ha richiuso dietro di me. Non c’è una maniglia per riaprirla: sono chiuso fuori. Ma fuori dove? Ancora non vedo, tutto è confuso, e mentre muovo i primi passi da quella porta, inizio a cogliere le prime novità.
Ancora non vedo, annebbiato dalle luci, ma colgo la loro naturevolezza. Il profumo degli aghi di pino accarezza le mie narici, ed i piedi poggiano su un terreno friabile: no, non sono più al chiuso. Sono uscito non solo da un corridoio, ma… Da un edificio. Arretro un po’, allungando le mani per ritrovare il legno di quella porta che ho appena abbandonato, ma non la trovo. Tasto ancora, lasciando che le mie dita scorrano agili sulla superficie del muro, ma questo continua senza mai interrompersi sotto di loro. La porta è sparita. Una parete antica, un muro di sassi e calce l’ha sostituita, spigoloso come quello delle malghe di montagna, eredi pluricentenarie di generazioni di uomini, animali e spiriti del focolare. Cerco ancora, agitato, con fremiti d’ansia che salgono prepotenti sotto il mio collo, strozzandolo, mentre il respiro accelera facendosi più corto, le mani ormai si fanno graffiare dalla spigolosità di quei blocchi calcarei scavati e spezzati dal tempo, li sento tagliarmi, la loro polvere si deposita sulla mia pelle tesa dalla frenesia dei miei gesti, ma nulla, niente, non c’è più alcunché lì dietro! Dio, non trovo quella porta. Quella porta non c’è più! No, non c’è proprio più! L’agitazione che ormai ha afferrato ogni parte del mio corpo mi piega le gambe. Crollo, accasciandomi su quella ruvida parete, cercando di recuperare la calma. E mentre ansimo, teso e attraversato dai fremiti che piano piano la mia razionalità inizia a dominare, la vista a poco a poco ritorna.
Sono fuori.

10.24

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Quarantaduesimo post

Sabato 13 Novembre 2021, ore 00:40

Ciao. Sono tornato.

Poggio lo zaino sulla sedia, sì, sempre lo stesso che da ormai cinque anni mi accompagna giorno per giorno lungo le giornate di studio – e non solo-. Ormai è logoro, inizia a rompersi sul fondo:il tempo passa anche per lui. Passa anche per me? Non lo so. So solo che scrivo a ruota stasera, come sempre faccio da ormai… 7 anni? quando ne ho bisogno, s’intende. E ne ho bisogno, già, perchè le tumultuose correnti del mio spirito anche oggi, anche stasera, mi agitano il petto, la mente, gli occhi spenti e seri che guardano fuori da questa finestra padovana. Bevo un po’, e penso. Che cosa sono? Dove voglio andare? Sono sempre queste le domande che si affastellano nella mia mente, temporaneamente sopite nei periodi in cui il mio umore galleggia sulla superficie delle acque, scaldandosi al sole, gustandosi la bellezza del panorama, la fresca brezza marina e la serenità di una vita comune, con le sue gioie, le sue occasioncelle, la sua quotidianità fatta di relazioni interpersonali, socialità, cazzatine, racconti, scherzi, fatiche e gioie. Galleggio ed ho galleggiato abbastanza bene in questo 2021, devo dire. Galleggio senza soffrire, almeno non troppo, e senza pensare ai miei dolori, i dubbi, le preoccupazioni e le grandi domande che mi porto dentro. Poi che succede? beh, succede che qualche inaspettata onda, od un repentino cambio di meteo, ti portano a cascare giù, sott’acqua. magari non del tutto, magari solo ci metti il piede, in acqua. ma magari ci caschi di più, fino al bacino, fino alla pancia, fino alle spalle. E allora che succede?Se tocchi, in un modo o nell’altro riuscirai a tornare a riva, o a rimetterti comodamente a galleggiare, mentre se non tocchi… hehe! Lì devi saper nuotare.
Io ora come sono messo? Tocco sul fondale, o devo iniziare ad annaspare verso riva? Che domande. Belle domande. Ovviamente non so rispondere. So che c’è un ennesima lei che mi ha scombussolato i sentimenti, anche se di poco, ma l’ha fatto, in queste settimane. E per l’ennesima volta, il mio desiderio profondo di instaurare rapporti veri, autentici e solidi con chi sento essere affine a me, mi ha portato a crederci e a sperarci, a giocare un po’ di me stesso in questa partita. Ennesima come ennesime saranno tutte le prossime, ormai lo so. E saranno tante, sì, perchè tanto è il mio desiderio di abbracciare con il mio spirito e con tutta la mia emotività una lei, così tanto che non saranno -ahimè- i dolori che proverò e che provo tuttora a costringermi alla resa. Perchè è bello volersi bene. E’bello pensare ad una persona durante la giornata. E’ bello immaginarla, tuffarsi nei suoi dubbi e nella sua vita, ed accoccolandosi sulla cima di una collinetta, guardare in silenzio la bellezza del panorama che è la sua anima. Spontaneo come un bambino, ingnuo, e felice. Protoamore? Forse sì, ormai ho imparato a conoscermi e a conoscere questi sentimenti. Per carità, non li conosco abbastanza e non li conoscerò forse mai abbastanza, ma i segnali, gli spettri, i picchi che percepisco sono significativi di qualcosa che non è nuovo nella mia memoria. Ed anche se dentro di me sento che sarà sicuramente solo l’ennesimo dolore, l’ennesima delusione, c’è sempre quella fiammella che, rimanendo accesa, lascia uno spiragio di luce. Una luce masochista, qualcuno direbbe. Una luce che conosco, che non si spegne se lo voglio, dico io. E sai che mi dico? Mi dico che nonostante tutto la bellezza di questa luce vale le sofferenzeche -probabilemnte. si porta dietro anche questa volta. Paura. Un po’, sì. E’un periodo dove la paura sale, si impossessa lentamente del mio corpo: mi laureo fra poco, le sofferenze sono finite, ma dopo cosa farò? Dove voglio andare, davvero, quando finirò questo ciclo della mia vita? Un ciclo di 6 anni nel quale sono cambiato parecchio, inevitabile dirlo, sciocco negarlo. Il ragazzo che nel 2015 iniziò ingenuamente questi studi è cresciuto, non tanto nella sua maturazione fisica o morale, quanto più nella sua coscienza, nella conoscenza del mondo e nella sua capacità di leggerlo, comprenderlo e muoversi al suo interno. In 5 anni, benchè passati principalmente dietro i libri, ho capito tante cose. Ho visto tante cose. Ed il risultato è che mi sembra di non sapere nulla del mondo, di essere ignorante, spaesato, fragile talvolta. Fragile, sì. E anche stanco di soffrire. Sono stanco di soffrire, avete capito bene. Stanchezza che mi porta a lanciarmi di meno in certe occasioni, non sentimentali, però alcune sociopolitiche sì. Sì? Ma davvero? Forse scrivo cose non del tutto vere. Perchè alla fine è vero che non mi tuffo con piacere -ma mi tutto quasi sempre- in avventure già sperimentate, dove già mi sono scottato con esiti deludenti. Ma soprattutto, quando un’avventura è nuova io mi ci tuffo sempre con voglia ed entusiasmo. Non diciamo stupidaggini, quindi. La voglia di provarci c’è sempre, ostinatamente. C’è stanchezza però. Fiacchezza. E, lo ammetto, una delusione trasversale che mi porta a dire “mi laure, mollo tutto e riparto da zero”. Il punto è che non so se ripartendo da zero andrò in meglio o in peggio. Ma forse questo discorso è meglio farlo domani, con calma, con un altro post, lasciando questo breve scritto a memoria del fatto che sono stanco, e che i miei pensieri, liberamente naviganti nella mia mente, talvolta trovano osrtacoli fisici -come questa orribile tastiera- per materializzarsi e fissarsi nel concreto. O forse no. Forse la voglia di scrivere supera tutto e mi tiene anchora legato a questa sedia scomoda. Chissà. A che penso? A lei, anche. E a cosa voglio fare della mia vta tra 15 giorni scarsi. Anzi, tra 12 giorni. Dai vado a letto, lascio questi pensieri al sole di domani -cioè oggi- mattina.

Una inedita pausa per questo settennale diario segreto (??) alle 01:11

ciao

non perderti, spirito mio. Resisti! Ciao ame stesso. Buonanotte

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Quarantunesimo post

Domenica 17 Gennaio 2021, 16:47

Esplodo. Di nuovo!! Sto ancora male, di nuovo cazzo, dio mio questa cosa mi sta risucchiando nel profondo. Male, male, malissimo, male sì. Perchè, perchè. Dovrei studiare, con un esame a giorni che non passerò, ed invece sono di nuovo qui, di nuovo a pensare ad L, alle mie aspettative, alle mie attese, a tutto quello che mi ribolle in pancia ora, ai dolori. Dolori sì, ora c’è dolore, e lo so benissimo il perchè. Perchè non c’è un tubo. Non c’è nulla, nemmeno questa volta, non c’è nulla. Non c’è un filo, non c’è un respiro, avevamo fatto un passo avanti ed ora, di nuovo, due indietro. Per carità, molte sono le giustificazioni che potremmo addurvi, e molte sono le cose che ora, preso dallo sconforto, sto cancellando dalla mente. Funziona così, e lo so. Funziona che pensi solo alle cose che ti hanno ferito, e non a tutte le cure che hai ricevuto e che riceverai. Sì, fa male.
Fa male e mi chiedo che cazzo ci sto a fare, ancora qui, ancora a soffrire. Soffrire nell’attesa di una lenta morte, lenta e dolorosa, e so anche alla fine perchè ci sto: perchè sono in un deserto, un deserto di contatti umani che mi porta a riporre speranza nei pochi che ci sono e che reggono. Ah il dolore, il dolore. Il dolore di quello sguardo vuoto, il dolore di quelle parole mancanti, di quel silenzio, di quel “embè, che cazzo ci diciamo adesso?”. Il dolore del nulla, del boh, del vuoto nel quale sono sprofondato due orette fa, appena ho poggiato il piede su un appoggio ahimè, falsamente stabile. Che fare ora? Ci risiamo, la domanda è sempre quella, in questa città vuota e grigia di un’esistenza ancor più vuota e grigia. Ho male allo stomaco. Male ora che non germoglia nulla, male ora che mi chiedo che cazzo sto facendo. Ma che cazzo sto facendo??? Cosa inseguo, cosa mi aspetto da quei sorrisi? E se ci fosse il vuoto dietro? Un vuoto non solo sentimentale. Ormai la domanda si fa sempre più concreta: ma io, inseguo chimere? Ma io, attendo con razionalità l’amore? Esiste? Che roba è l’amore? Dio, queste lame nella pancia. Ancora. Ancora e ancora. Perchè mi sono ridotto in questa situazione, perchè sono sceso a Padova? Non c’è nulla qui!!!! Nulla!!! Nessuno, il vuoto sociale, la pura solitudine. Cristo se fa male. Passato sto esame devo tornare su, per forza. Qua si muore. Se non muoio di delusioni, muoio di solitudine e vuoto sociale, cristo dio. Cristo se sto male. Cristo, ora il dolore si attenua, ma il problema permane. Ora ci penso, scrivo direttamente, senza pensare alla forma, ai ragionamenti, io scrivo a ruota libera il gorgogliare che ho in pancia, questa volta. Non in petto, no: questa volta è tutta pancia. Pancia e dolore, pancia e solitudine, dovrei vivere con qualcuno queste cose, non posso stare da solo, qui. E’ difficile affrontare i dolori da soli, tanto difficile, tanto.

Mi sto riprendendo. Accendo la testa, inizio a pensare: la ragione ha riafferrato almeno parte del volante, mentre l’emotività lo sta mollando. La guarda un po’ preoccupata, un po’ triste, come se le stese chiedendo scusa per quel che ha combinato. Anche questa volta. Ancora una volta. La razionalità sorride, stancamente, ma serena. Ci è abituata, lei, a questi colpi di matto. C’è abituata eccome.
La razionalità ora afferra con ambo le mani il volante, e riporta la macchina in carreggiata. Ed ora, dopo lunghi attimi di silenzio, parla.

Ci tiene a te? Sì. E pure tanto. Ha lo stesso modo di dimostrarlo che hai tu? No. Sei in grado di leggerla bene? No, perchè scrive le sue emozioni ed i suoi pensieri con una grafia ed uno stile diverso dal mio. Questo potrebbe essere un problema? Sì, lo so. Potrebbe esserlo. Ti devi dannare per non riuscire a leggerla? No. Non mi devo dannare, perchè per imparare a leggersi ci vuole tempo. Quel che conta è il contenuto del testo, lo so. Conosci già il contenuto? No, non lo conosco in buona parte, e questo mi fa paura, mi spaventa, perchè le aspettative e le attese spaventano. Il fatto stesso che lei non si sia mai innamorata è fonte di preoccupazioni, e lo sarà sempre. Il fatto che non lo sia, che viva un blocco che io ben conosco, perchè pure io l’ho vissuto, è altrettanto preoccupante per me. Queste sono le radici delle mie paure. L’unica differenza da altre situazioni, è stata in questo caso la mia profondissima franchezza, che mi fa stare bene. Anche se lei non sa cosa voglia dire, sa che cosa cerco, che cosa penso di lei, che cosa in qualche modo provo. Ed in che modo lo provi? In modo diverso da come ero abituato. L’ho detto, qui si fa un passo in avanti e due indietro. E’ un logorio ed un rinforzo continuo, un gioco difficile quello a cui sto giocando. Un gioco difficile. Ma le cose belle sono sempre difficili, lo so. La distanza e la non frequentazione sono uno dei problemi, questo è certo: come poter far crescere bene una pianta, se la si osserva solamente ogni tanto? Il tempo passa, e quella chissà dove va, chissà che combina. Non ha senso farla crescere, non ha senso. Troncare tutto? E’ un’opzione sempre sul tavolo, quella più semplice, pratica, la meno dolorosa alla fine. Uno strappo netto, un fendente definitivo che mi ammazzi dentro, dal quale poi rinascere con calma, molta calma. Ecco, io lo sento ora cosa spinge anche lei a non innaffiare, a non far crescere. Lo sento bene. Qua ci si fa male ad andare avanti, ci si fa solo male. Non deve crescere, deve ibernarsi. Deve rimanere in ammollo, galleggiare, e tuffarsi solo quando sarà tempo. Come si fa? Ah, dio, come si fa? Come resistere ancora? Non lo so. Non so perchè sento che si tratta di un percorso inesorabile, che finora ho frenato man mano ma che, ora, inizia a procedere verso la sua destinazione. Frenare… frenare… non lo so. Non è facile. Ma la scelta è questa alla fine: frenare o ammazzare. Frenare o ammazzare. Cristo, quando vorrei frenare, quanto vorrei essere in grado di farlo, quanto lo desidero, dio mio. Io ci provo eh, ci provo. Ci provo veramente, però non so se ne sarò in grado. Ho tanta paura di doverlo ammazzare. Ho paura. Ho paura.

Ho paura. Mi viene da piangere.

17:26

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Quarantesimo post

Giovedì 7 Gennaio 2021, ore 11:53

Rieccoci, sull’orlo del baratro. Dio, siamo di nuovo persi, di nuovo stiamo per crollare o lo siamo già, di nuovo.
Fantasma.
Fantasma ho titolato quella foto, un fantasma che mi perseguita, che mi mangia l’animo, aiuto, ansia, cosa succede. Dio mio. Mi mangiano dentro queste paure, dove vado? Cosa faccio? Dove sono tutti? Dove sono io? E poi ancora, ancora l’ennesima mano che mi strangola il cuore sorridendo, ancora l’ennesima sofferenza, l’ennesima delusione, l’ennesimo… errore? Ma forse sto sbagliando io? Domande e dolore, dolore, dolore e d ancora dolore che mi pervade, in questa esistenza di dannazione, di flagellazione, in questa città sempre grigia e triste, senza il sole che illumini con un minimo d speranza questi giorni. Dolore!!! E se mi sfogo già alle prime righe, sigifica proprio che qualcosa qui non va. Non va perchè…? Perchè?
Già, perchè.
Andiamo con ordine: dove sono.

Sono tornato nella mia città universitaria, quella nebbiosa piattaforma galleggiante sita al centro del Veneto, crogiuolo di gioie e sofferenze di 1/5 della mia vita, ormai. Faccio fatica pure a scrivere.Dio mio. Ma devo. Ebbene, sono di nuovo qui. Qui per ultimare questo ciclo che definirlo di studi sarebbe riduttivo:un ciclo di vita, di esperienze e sofferenze, qualche gioia ad alimentare la caparbietà nel proseguire, nell’andare avanti, ma tutto immerso nei dolori. Dolori di estati passate sui libri, dolori di inverni crocefissi sul legno degli esami, dolori anche di delusioni sentimentali, di amicizie perse, di delusioni esistenziali. Dubbi, domande, questioni prese e chiuse in un cassetto, con tanto di “ci penserò quando sto meglio”. Sì, certo. Ha proprio funzionato eh? Oddio, un po’ sì. Un po’ no. Sospiro. Devo persino prendermi le pause dalla scrittura, dio quanto mi affliggono queste cose. E dire che sono stato peggio, che i miei dolori hanno saputo affondare molto più in profondità nel passato. Eppure… eppure colpisce anche così, come una carezza. Una modbida carezza che mi sfascia il petto, fa crollare quei castelli di carta che m’ero costruito dentro. Castelli di carta? Bah, forse un po’ più resistenti, ma si sono dimostrati tali.
Ad ogni modo, perchè fantasma? Perchè quella foto l’avevo scattata cinque anni fa, in un periodo di profonda solitudine e disperazione personale. Non sapevo dove andare, non sapevo cosa fare, non sapevo dove sboccare in tutti i senti che questo termine può avere. Non sapevo. E stvo male, profondamente male. Disperato. Oggi è lo stesso? oggi quella foto è diversa, più lugubre, invecchiata: sono passati cinque anni, caro amico mio. Cinque anni di esperienze e distruzione interiore, costruzione e flagellazione, caspita se mi sono distrutto e ricostruito dentro! Oggi, diversamente da ieri, non sono più così insicuro. Ma è un bene, o un male? E’ bene stare stabili dentro di sè, o è un male? Perchè caspita, la mia stabilità dipende da tantissime variabili. E potrei essere stabile, per capirci, sul posto sbagliato, sulla posizione, lo stato, le idee sbagliate. Mannaggia, vorrei una macchina per andare dove mi pare in questo momento. Vorrei che non esistesse la pandemia. Ma l’erba voglio… Vabbè. Ed è quell’immagine spettrale che mi naviga dentro, fantasma di un passato che sta lentamente ritornando dentro di me, in modo diverso, chiaro, più maturo, cresciuto, ma è sempre lui: la solitudine, il vuoto attorno a me, queste cose qui.

Fantasma poi perchè io stesso, ora, mi sento un fantasma. Il mio io si sta scollegando dal mio corpo, ragiono ed agisco senza vivere sulla mia pelle emozioni e sensazioni che vadano oltre il caldo ed il freddo, la fame (pochissima) e la sete. Oggi sotto la doccia ho visto che la pancia sta calando. Non me ne sarei accorto altrimenti. Non mi fa paura, ma so cosa significa. Lo so bene. Chissà se in questa casa c’è una bilancia. Metto su il farro. E’ una sensazione molto brutta e dolorosa, perchè mi sento scollegato dal mio corpo, mi sento su questo baratro di emozioni, che poi non ci sono. Una sorta di apatia molto fastidiosa, che per carità, ho provato fino ad un mese fa a casa mia, ma speravo di non rivivere qui. Lo so come si cura: con la socialità, con gli altri, perchè è nello stare con gli altri e nel rispecchiarsi nei loro occhi che capiamo chi siamo. E quindi a memanca parecchio la socialità, e so che con essa starei meglio di come sto ora. Magari il mio fantasma riuscirebbe a rientrare nel corpo, a riprenderne possesso, a dirgli “mangia”, “curati” “vestiti bene”, “regolati la barba”, “sorridi”. Chi lo sa. Ora sto così, in questa condizione pericolosa, e bene non sto. C’è appunto la paura di cadere, di sfasciarsi a terra, e non è piacevole. Io galleggio, come un fantasma, trascinandomi dietro il corpo inanimato, e lo manovro come fosse una marionetta. Sto più avanti, più in alto, conta mezzo metro più in alto, e mi trascino dietro il corpo. Eccomi, sono così, ora. Pensa te come sono messo, e pensa te quanto male sto scrivendo! Ah, la capacità descrittiva che avevo è svanita, persa nel nulla, puff… tornerà, lo spero, quando nella mia vita torneranno i colori e le gioie, le belle emozioni ed il sorriso. Non la serenità, sia chiaro. Il sorriso. Perchè non c’è gioia se non c’è tensione, azione, vita! Qua invece sta tutto morto. E a guardare dall’esterno la mia situazione, non mi dovrei stupire. Si galleggia nell’apatia qua… Magari domani vedo qualcuno, dai.

Non è finita qui. Perchè ora, in questa esistenza di apatia e studio per l’esame, si aggiunge un ingrediente in più: fantasma perchè… fantasma perchè cosa provo? Hehe. Qui si parla di L. Non tanto come persona in se e per se, ma per ciò che sta rappresentando come esperienza dell mia vita. Un’esperienza diversa, e non di poco, per moltissimi aspetti. Un’esperienza che veramente non so come andrà: il passato mi insegna che finirà presto e male, ma non ne sono così sicuro questa volta. No. Faccio fatica a scrivere con continuità oggi, continuo a bloccarmi, a frenarmi, a pensare. Che situazione… E dire che dovrei studiare! Dovrei fare così tante cose, che non faccio quasi niente. L’orzo ormai sarà pronto. Comunque è tutto diverso: è diverso perchè è una persona che risuona a frequenze molto simili alle mie per tantissimi aspetti, è una persona che non si sta tuffando nell’amore (anzi! Zero proprio) però riconosce la bellezza dello scambiarsi parti di se, di parlarsi ed aprirsi, è una persona con tante brutture dentro di se, e per questo mi piace. Perchè quelle brutture, quei lati acerbi, quegli spigoli sono simili ai miei, e badate bene: non combaciano mica eh! Però sono, in un certo senso, delle sfide. Non è facile e non sta andando coi ritmi a cui ero abituato, è tutto lento, strano, diverso e lo è a tal punto che le opzioni sono due: o sono arrivato ad uno stato di malessere tale da non riuscire a rendermi conto d’essere davanti ad un errore madornale, oppure è una strada inesplorata da sperimentare e percorrere. Perchè lo dico? Perchè sta andando in un modo tutto nuovo. E anche se fosse una sconfitta (come, diciamocelo, probabilemte sarà) sarà un esperimento diverso, un qualcosa di mai sperimentato prima, da mettere nel mio bagaglio culturale di emozioni e cose così.
Sono passate alcune ore, ho mangiato, chiacchierato, ed il mio umore si è un po’ riassestato. Crollerà nuovamente, lo so, sprofonderà ancora nelle melme di questo periodo indeterminato, che non so più quando è iniziato e non so quando finirà. Però ecco, rileggendo l’ultima parte mi rendo conto che, in modo puramente egoistico, abbia senso affrontare questi dolori finchè sono tollerabili, abbia senso provare a percorrere una strada leggermente diversa dal solito finchè sopravvivo, abbia senso respirare quest’aria nuova: potrebbe essere mortale, potrebbe essere benefica, chi lo sa. Tutte esperienze, che significa conoscenze degli altri e di me stesso. Ne val la pena, per cui non penso che getterò la spugna subito, allontanandomi e curando con i metodi che ben conosco i piccoli (o grandi) malesseri che ho. Camminiamo e vediamo come va, che succede, cosa imparo…e si vedrà! Sarà divertente rileggere queste pagine. Forse, saranno proprio queste esperienze (e sconfitte?) ad insegnarmi come vincere le prossime volte, o meglio -visto che parlar di vittorie e sconfitte non è giusto in questi casi- ad insegnarmi a percorrere le strade giuste, quelle che meno faranno soffrire gli altri e meno faranno soffrire me, e che mi porteranno sulla via tanto sperata, quella di una bella relazione, lunga, completa, che copra quel buco della mia esistenza. Che non è l’unico buco, ma è un buco importante.

Dopo un pranzo ed innumerevoli pause, si son fatte le 15:50. Lo studio mi attende, molte cose dovrei scrivere ancora, ma c’è tempo, ed ora non sono più nelle corde di tirarle fuori. Chissà che questa esistenza mi regali ancora esperienze curiose, nel bene e nel male. Chissà che mi stupisca, che mi incuriosisca, che mi dia qualcosa di cui vivere, qualcosa per cui alzarsi la mattina e combattere. Un senso, un fine, una meta. E un abbraccio.



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Trentanovesimo post

15.12.2020, ore 21.11

 

Rieccoci qua, a distanza di anni rieccolo che torna, il grande animale oscuro armato di chele per stritolare i suoi nemici, in difesa, costante, pronto a difendere la sua pellaccia e quella dei pochi cari che ha, per i quali alla fin fine darebbe tutto, perchè la sua esistenza che senso ha? Non ce l’ha.
Benvenuti lettori, o bentornati in questo circo ridicolo, in questo mondo magico di racconti e d’anime che si riversano su un foglio bianco, che manco esiste, un sottoprodotto virtuale della coscienza di quello là, quello solo e strano, che scrive con in testa la mente e il ritmo di Cuba Cabal.
Torniamo normali, e cerchiamo di dare un minimo di grazia e forma alle parole che presto inonderanno, come la piena di un fiume, questo post. Annettiamolo, caro mio, ammettiamolo davanti a questa pagina: siamo in un buco nero. Un buco nero che ormai risucchia tutte le nostre prospettive, i nostri sogni, le nostre ambizioni. Ambizioni e sogni che, caspita, ora abbiamo: è finito il tempo delle incertezze e dei dubbi, del “che sarà del mio futuro, che sarà di me”. Quello lo sappiamo, adesso. Sappiamo chi siamo, e sappiamo chi non siamo; sappiamo cosa vogliamo essere, e cosa non vogliamo essere; sappiamo chi vogliamo attorno a noi, e chi invece non desideriamo condivida il nostro percorso e il nostro sentiero. Una lucina verde illumina il telefono, qualcuno sul nostro sentiero ci chiama, o risponde al nostro richiamo. Sappiamo anche questo, adesso: sappiamo che non siamo soli.
E allora cosa c’è che non va ancora? Non va che siamo in un buco nero, risucchiati dal vortice di questa situazione planetaria che ci sta rubando ogni prospettiva, ogni certezza, e che man mano ci erode quello straterello chiamato “sopportazione emotiva” che avevamo dentro. Dopo quasi un anno dall’inizio della Pandemia, e dopo un anno esatto -o quasi- dall’ultima volta in cui ho avuto una vera vita da studente, sono a pezzi. Siamo a pezzi. La psiche non regge, non sopporta più quell’ambiente che prima era certo mal tollerato, ma comunque tollerato. C’erano, nella mia vita, tutti quei piccoli espedienti per poter tener botta, reggere i colpi, stringere le mani sui parapetti della nave che veniva sballottata dalla corrente, e non cadere. Adesso, invece… adesso si cade, cazzo. Si cade e ci si fa male, stare in equilibrio è diventato difficile ed impegnativo, e le forze se ne vanno. E poi, stringersi al parapetti per andare dove? per dove direzionare questa vita, per dove puntare le nostre aspirazioni? Certo non per tornare alla vecchia normalità, che comunque era causa di malessere personale. Ma quale sarà la nuova normalità?
Questo, sì, potrebbe essere un esercizio di ottimistica fantasia. Potrebbe essere una possibile via d’uscita, anzi, diciamocelo: in ogni caso sarà l’unica via d’uscita, sta a noi essere in grado di portare quel piccolo contributo perchè sia un’uscita migliore dell’entrata. Un’uscita in un mondo che ragioni per altre logiche, per altri canoni, dove il denaro e l’arricchimento non siano la cifra delle nostre vite, dove non esista mai più, cristo, mai più il dominio di un uomo su un altro, sia esso frutto di violenza fisica, economica o psicologica. Che sia un mondo libero, non “più libero”, e che sia giusto, non “più giusto”, che vi sia la morale, il bene comune, la coesistenza e la cooperazione tra di noi tutti. Che sia un mondo dove la solitudine non viene tollerata, ma curata, dove il malessere sia considerato un problema da risolvere, e non “un numerino da mettere in conto, e curare con qualche pillola”.
Sono ancora un illuso nel crederci? Mah, forse sì, ma meno illuso di un anno fa: oggi sì che uno spiraglio si vede, che la possibilità di cambiare c’è. Ne ho le forze, ne sono sicuro? Insomma. Eccola qui, la mia debolezza. Debolezza dettata dalla solitudine personale, l’incapacità di riuscire a ritessere relazioni e legami con compagne e compagni che mi permettano di portare avanti, assieme a loro, i disegni comuni di una nuova esistenza: c’è ancora confusione, è forse ancora troppo presto per poter chiarificare certi sogni che mi faccio nella mente. Certo. E’ presto. E quindi si attende, e nell’attesa si perfeziona il disegno, le fasi, le possibili vie… sarà un’attesa infinita? Dio, questa domanda inizia a pressarmi prepotentemente nella mente. E se veramente infinita fosse? Il resto della mia vita dove se ne andrà? Riuscirò a costruire un rapporto stabile con una lei, che sia vero, autentico, profondo e duraturo? Magari con L? E’ assolutamente prematuro dirlo, se il giudizio si limita a questo caso particolare. Ma se l’interrogativo viene esteso al generale, alla mia capacità, ora che pochi mesi mi distanziano dal quarto di secolo, la domanda diventa tutt’altro che banale e prematura. Ho difficoltà a costruire rapporti perchè ho difficoltà a dare e ricevere  fiducia, a stare al tempo, e soprattutto a portare e ricevere il giusto rispetto reciproco. Non so, sono molte in realtà le cose che mi perplimono a riguardo, tutte accomunate da una sottile ma costante paura di fondo, che è sempre la stessa: la paura della solitudine. Perchè certo, si può anche vivere da soli, o con dei pochi grandi amici, ma una relazione è un’altra cosa, la relazione ti completa e ti fa sentire bene in tutto. Eh, caspita se è così! Pesanti sospiri mi accompagnano mentre svuoto i miei pensieri (ed il mio malessere? Mah, forse sì) in queste righe. Mi dispiacerebbe rimanere solo pure questa volta, anche se so, dentro di me, che i segni premonitori ci sono eccome. Che è possibile che accada, e che sarebbe un gran peccato, perchè L è più di molte altre una persona sincrona ai miei ritmi e alla mia mente. Si vedrà, e se dovrà andare male, si affronterà con la solita calma e tenace resistenza che ormai la mia pellaccia ha imparato a sopportare. Per forza. Fa ridere il fatto che manco mi venga da credere che le cose possano andare diversamente, considero unicamente l’opzione negativa, e poi se va bene… sarà una sorpresa piacevole. Non inaspettata, per carità, ma piacevole. Insomma, c’è dell’ineluttabilità nelle vicessitudini che accompagnano i nostri spiriti, nelle stradine che le nostre emozioni, quatte quatte, decidono di percorrere. Un po’ di ottimismo mi farebbe bene? Mah, ormai l’ho perso per strada. Rimane solo la capacità di vivere ad occhi aperti, stare sveglio, e guardare il mondo per quel che è. Sono triste o sono solo sfinito da questa vita? la seconda, caro mio, la seconda.
Ma ne devo uscire, se non voglio morirci dentro. Sono in una pozza d’acqua stagnante, ma con la lucidità e la conoscenza bastanti per rendermene conto e capire che ci devo uscire: non trovo una via d’uscita? Me la invento. La devo creare, la devo costruire da zero su misura per le mie esigenze ed i miei sogni, e la devo percorrere. Può sembrare una soluzione triste ed artificiale, ma è così che si inganna il prossimo (e ci si auto-inganna) per portare avanti questa vita: generare percorsi che tendano verso i nostri sogni, sviluppare strade, strategie, tattiche per arrivare all’obiettivo. Funzioneranno? Probabilmente no, ma intanto ci si muove verso. Muoversi verso, camminare verso, che bella immagine. E nel farlo, ridurre sempre più la distanza tra noi e i nostri sogni, per sentirci più vicini, per sentirci meglio. L’importante è non farlo con le persone, non farlo soprattutto con lei, la signorina L, ma suvvia, oramai sono errori che non commetto più, me lo sento. Sono cresciuto, sono maturato, il mio fusto si è irrobustito ed irrigidito. Sto diventando una pianta seria, che non teme più il freddo, i parassiti e i decespugliatori. Il problema è che sono cresciuta subendo storture e pieghe innaturali che mi porterò quasi per sempre dietro. Chissà come andrà a finire questa storia!
Malinconico ottimismo? Un po’ sì. Un po’ malinconico, e un po’ ottimismo, s’intende.
Il punto è sempre quello, uscire dalla melma, abbandonare il buco nero e, soprattutto, fare di tutto perchè nessuno ci entri mai. Mai più per causa mia qualcuno dovrà soffrire: non accade da due anni e più, e non deve accadere mai più. Forse M sarà rimasta ferita dai miei silenzi? Io però non me ne sono approfittato: le ho sempre detto e ripetuto, contro ogni mio interesse (o no?) che non ci sarebbe mai stato dell’altro. Lei s’aspettava altro? Mah. Credo che si aspettasse attenzioni e sudditanza che, per definizione, non possono proprio provenire da me. Spero che le sue malinconie non debbano un giorno accumularsi sulla mia coscienza,ma se devo essere sincero sono anche abbastanza sereno su questo versante. E le mie di malinconie? Devo spazzarle via e ricoprire quello straterello di delusioni con una spolverata di speranza. Non è facile, ma non ci sono alternative. Stringiamo i denti, fieri di essere finalmente e costantemente persone buone, giuste e corrette con il prossimo. La moralità paga, e lo sto vedendo in questi anni, lo vedo persino in questo ultimo difficile periodo.
E’ la strada giusta. E’ la mia strada. E’ l’unica degna d’essere percorsa.

22:36

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Trentottesimo post

Mercoledì 10 Ottobre 2018, ore 20:36

Di nuovo un orario non molto consono per riflettere su me stesso, in un periodo molto impegnativo della mia vita sia dal punto di vista dello studio che, soprattutto, dal quello emotivo. Non mi diverto oggi a scrivere -come spesso capita- perchè oggi voglio riversare sul mio blog anonimamente e solitariamente pubblico i pensieri che mi ronzano per la testa come mosche fastidiose, che vorresti scacciare ma che alla fine sai di non poter allontanare. Quelle mosche che dopo un po’ lasci ronzare attorno a te, quando guardandole con sgardo di resa ti rendi conto che hanno un nome, e quel nome è: “delusione”.
Sono deluso, si.
Deluso da diverse cose, che elencherò e analizzerò con ordine cercando di riordinarle nella mia testa, ma che globalmente mi caricano di sconforto e mi spingono a riflettere, con serietà, su cosa voglio fare della mia vita di qui in avanti.

La prima delusione è quella forse più importante, quella politica. La politica che ho sempre seguito e per la quale, da quattro anni a questa parte, mi sono sempre battuto, mi ha deluso. Mi ha deluso vedere come i miei sogni, le mie speranze, il mio desiderio ardente di un mondo diverso ed un futuro migliore per tutte e tutti quelli che mi circondano, per tutte e tutti quelli che vedo in difficoltà, per tutte e tutti quelli che sono schiacciati dal peso di questa esistenza ingiusta che li vuole vittime… come tutto questo scompaia davanti alle parole, ripetute in eterno da chi mi circonda, “compromesso”, “accontentarsi”, “pragmatismo”. Quella speranza indistruttibile che mi reggeva in piedi ogni giorno, quel mio credo che nello spirito resisteva come acciaio davanti ai fallimenti e alle piccole sconfitte, è stato man mano scalfito dai miei compagni di strada, da tutte quelle persone che davanti alle mie parole mostravano un sorriso amaro, una pacca sulla spalla seguita dal “te si giovane…” e da quella fiacchezza accompagnata da bicchieri di vino prima e dopo le nostre inutili assemblee, nelle quali non si concludeva nulla e dalle quali ogni germoglio che cercava di nascere è stato sempre strappato e gettato via. Tutto questo, tutta questa cappa afosa di disillusione e di incapacità di sperare davvero in qualcosa di diverso, mi ha tolto sempre più le forze per andare avanti, mi ha reso incapace di dover reggere, oltre che me stesso, anche tutte queste persone sulle mie spalle. Perchè lo so, è vero che i miei sorrisi hanno aiutato tanto quei cinquanta-sessantenni arresi ad un presente che non si aspettavano di rivedere, la mia voglia di fare ha dato speranza agli ottantenni che, davanti al crollo dei loro ideali, vedevano la mia forza che trascinava avanti un carro altrimenti perennemente fermo. E’ vero, è tutto vero ma non ce la faccio ad andare avanti da solo. Non ce la faccio a proseguire il mio impegno in direzione ostinata e contraria in ambienti dove poi alla fine la mia opinione conta poco davanti agli accordi, ai compromessi, alle strette di mano con chi ha sempre tradito ma, sempre, è stato premiato grazie ai tramacci, ai sotterfugi, al denaro che ha, al consenso comprato e non guadagnato con la fatica, la faccia e la fiducia. No, io non posso proseguire questo percorso, è troppo difficile reggere continue delusioni e non posso continuamente abbassare la faccia ed inghiottire bocconi amari in nome di chissà quale “male minore”. Basta compromessi inaccettabili, basta autocastrazione ed autocensura, è una lotta inutile che continuo a combattere contro me stesso quando invece i miei sforzi dovrebbero essere protesi altrove, verso chi davvero ha bisogno e sempre viene dimenticato. Ormai il “finto alternativo” mi disgusta, il “perbenismo” mi schifa, non ce la faccio più a starmene là in mezzo, in quell’ambiente slegato dalla realtà dove i più anziani sono troppo stanchi per far valere la loro voce ed i più giovani sono dei benestanti che col cavolo che rinunciano al loro stato sociale, figuriamoci se rinunciano alla loro faccia per gli altri. Io, io che in questo mondo ero entato con tanto entusiasmo quattro anni fa, io che a questo mondo non ho dato tutto, no, ma ho dato tanto per quel che erano le mie disponibilità, ebbene io mollo. Io ne esco. Io non ci sto più. Non è quello il cui credevo, non è quello in cui speravo, non vedo più quella fiamma che ci univa ma solo grigiore e tristi braci che negli altri vanno spegnendosi: potrei provare a soffiarci sopra per riaccenderle, potrei aggiungere qualche pezzettino di legno, un po’ di carta per poter tentare di far ripartire una fiammella di speranza… ma non lo voglio più fare, almeno non ora. Ho esaurito la legna, la carta, il fiato, ho esaurito tutto.

Questa mia delusione si lega pure ad un altro problema, un pensiero che è emerso parallelamente a questa mia disillusione e che ora come ora devo affrontare con la giusta serietà. Parlo del mio essere diverso.
Io sì, cari amici, sono diverso. Diverso da sempre, diverso da mai, diverso da molti, diverso da nessuno, diverso dallo standard, dagli stereotipi, diverso da tutto e tutti. Io sono diverso perchè mi sento, e mi sono sempre sentito, diverso da voi: ho sempre percepito quella distanza che, in modo impalpabile ma forte, imponeva barriere tra me e gli altri.
La leggenda vuole che sin dalla nascita le infermiere del reparto di maternità mi chiamassero, fra di loro, “il vecio”: il bambino bello come gli altri, sì, ma che diversamente dagli altri non piangeva mai, non si lagnava, ma in modo “maturo” stava al suo posto, quasi fosse più “vecio” degli altri.  Di qui in poi, neanche a volerlo, questa mia caratteristica si è sempre fatta notare ed è sempre stata evidenziata, nel bene e nel male, da chi aveva a che fare con me. La mia precocità nel parlare prima che del camminare, il mio essere un “bravo bambino” che però veniva emarginato all’asilo perchè figlio di foresti sono stati il leitmotiv di questi primi anni di vita, proseguiti con una discriminazione sempre maggiore nel profondo della provincia veneta, la provincia che ti schifa se non sei di sangue locale, che ti osteggia se i tuoi genitori la pensano diversamente dal prete del paese, che ti osserva con invidia e disgusto se sei il più bravo a scuola. Eccola qui, di nuovo, fortissima, la mia diversità. Diversità che ha segnato la mia infanzia e che in modo brutale ed inevitabile mi spinge lontano da tutte e tutti voi che mi state leggendo, e che magari pure mi avete conosciuto senza saperlo: voi che eravate dall’altra parte del confine, oltre quella riga sul selciato che ha sempre separato me da tutti, tutti gli altri, inclusi voi. Voi che non vi odio ma vi ho odiato, voi che ci parlo assieme ma che un po’ vi vorrei superare in tutto, per dimostrarvi che il diverso è diverso perchè è meglio di voi, merde. Voi provincia, voi gente per bene, voi banali, voi normali, voi che non vi discosterete mai dalla massa a meno che non vada di moda, perchè siete massa e siete una massa che non mi ha mai voluto avere con se, senza che io avessi colpe, ma solo perchè ero diverso da voi.
Gli anni sono passati ed è arrivata la mia maturità, segnata dalla diversità del mio essere, ancora una volta, vecio. Il ragazzino che a dodici anni aveva già la barba, quello che era alto e maturo, quello che i professori stimavano ma che avrebbe preferito essere stimato dai suoi compagni, piuttosto, si proprio lui, il Diverso, è cresciuto. Ha conosciuto man mano il mondo, iniziando a capire che tutto quello che lo distingueva dagli altri, tutto quello che lo allontanava dalla massa, quella mano invisibile che con incredibile forza lo teneva fuori dal campo di gioco, fuori dal parco, fuori dalle feste e dalle compagnie, fuori dai sorrisi degli altri e dagli inviti, beh tutto questo aveva un nome. Aveva una ragione. Aveva un significato. Era tutto così impalpabile per il Diverso, che passò anni a crucciarsi di che cosa fosse quella mano che lo spingeva lontano, verso direzioni fosche e poco chiare: se ne crucciava terribilmente, e affranto dall’incapacità di comprendere il perchè di quel suo esilio forzato dalle gioie altrui si faceva passare la fame e la voglia di impegnarsi, scaricando la frustrazione in parte nello sport, ed in parte nella nevrastenia che ancora lo contrassegna, sebbene ben sopita e sedata quando è in compagnia degli altri.
Il Diverso in quegli anni non rideva e non piangeva, non mangiava e non gridava, non si agitava e non si calmava, non faceva null’altro che domandare a se stesso “chi sono? che cosa faccio qui? dove devo andare?”; vivendo in uno stato di triste apatia e rassegnazione, alimentava il suo bisogno di risposte a quelle sue domande con l’unico carburante a sua disposizione in quel momento: l’odio. Odio verso chi era felice -e lui no-, verso chi viveva quegli anni in modo pieno e gioioso – e lui no-, verso chi aveva soddisfazioni e si trovava a suo agio nel mondo che lo circondava -e lui, lui no-.
Il Diverso però fece la prima cosa giusta in quel suo periodo difficile: iniziò a circondarsi di persone diverse come lui.
sto scrivendo davvero male in questo momento, e mentre scrivo mi chiedo se in questi anni abbia perso, tra le tante cose, pure la mia timida capacità di scrivere in modo decente. La risposta probabilmente si materializza con un “si” che mi appare davanti agli occhi, ma dopotutto credo che alla forma del discorso, almeno questa volta, sia preferibile l’espressione della sua sostanza, la sostanza che ho bisogno di concettualizzare in queste righe nebulose che da anni permangono nella rete senza che nessuno vi faccia caso. Perdonatemi, anonimi lettori, se vedete che il discorso non è lineare, ma cercate di comprendermi: io non scrivo per voi, scrivo per me stesso. Mi dispiace non essere elegante, ma per questa volta… va bene così
Diverse come lui nel senso che pure loro, come lui, erano state portate ai margini della società: ai margini perchè indegne di partecipare alla danza della massa, perchè tristi, perchè ciambelle uscite senza il buco o biscotti storti e sbavati. Difetti di natura, anzi di società, che erano stati cestinati sin da subito, ma che non hanno per questo perso la capacità, dopo tanto tempo, di riconoscersi e di star assieme. E’ proprio così che il Diverso riuscì a non essere più solo, circondandosi di diversi come lui e vivendo assieme a loro mille esperienze, le quali -inutile dirvelo- erano anch’esse diverse da quelle della massa. Anni di stupidaggini e follie al limite della decenza e del legale, stando sempre al massimo, sperimentando l’ebrezza di sporgersi oltre quei confini che erano stati loro insegnati sin da bambini: osservare il precipizio oltre lo strapiombo, con quel sadico desiderio di buttarsi per vedere se sarebbero caduti nel vuoto o… o avrebbero visto nascere sulle loro spalle delle ali che li avrebbero portati in alto, lontani da tutti e finalmente liberi di essere completamente se stessi. La compagnia degli estremi e degli estremismi, del troppo e del troppo poco, del folle e del violento, della fune tirata finchè non si spezza per il gusto di vederla spezzarsi ,  delle catene che li legavano alla “normalità” fatte solo per essere sciolte. Evasione la loro parola d’ordine, libertà il loro cuore, riscatto il loro orizzonte. Per una volta, anche se per poco, poterono usare la parola “noi” anzichè l'”io”: non erano più soli, non eranop più relegati all’esclusione dal mondo, ma potevano viversi il loro, sorridendo delle loro gioie, abbracciando forte la loro compagnia, così tanto sudata e così tanto, tanto importante per tutti loro.
Era così che il Diverso si era sentito meno solo, anche se aveva dovuto pagare cara questa sua flebile illusione di compagnia: presto arrivò l’ora dei tradimenti, delle bugie e degli inganni tramati per il gusto di conquistare, l’un l’altro, quegli scranni tanto agognati da tutti e mai avuti da nessuno. Così pezzo dopo pezzo si frantumò tutto, ed il Diverso tornò ad essere immerso nella sua solitudine profonda, dove la luce del sole raramente penetra ed i compagni di viaggio sono solo i mostri degli abissi: quei pesci misteriosi che abitano le tenebre dei mari, dove il Diverso si era infine immerso per non farsi più vedere dal mondo, per sfuggire dagli sguardi indiscreti, per isolarsi da tutto ciò che l’aveva deluso, tradito, ferito. Come un animale sconfitto, passò gli anni a leccarsi le ferite, cercando man mano di risalire verso la superficie del mare per poter repirare aria nuova, per rivedere le bellezze del mondo lassù, per tentare di nuovo di rientrare in quel grande tiepido brodo di persone, sorrisi e felicità che l’aveva sempre rifiutato.
Non fu una risalita facile, e metro dopo metro, nuotando verso la superficie, ritrovò alcuni compagni di viaggio abbandonati in passato: trovò un piccolo pesce solo in cerca di compagnia, un suo amico un po’ più intraprendente, e poi man mano l’anguilla, i due cavallucci marini, il tamburo… incontrò pesci nuovi, come la razza, la coda di rondine ed una ranocchia, conobbe il pesce palla assieme a tutti i suoi amici, ed insieme risalì ancora il mare avvicinandosi sempre più alla superficie: mancava poco ormai, per rivedere finalmente la luce del sole, per riabbracciare di nuovo il cielo, le stelle, le piante e gli alberi e gli animali che abitavano la terraferma.
Risalendo incontrò anche diversi uccelli che già vivevano in superficie, e che di tanto in tanto scendevano nel mare per andarlo a trovare: erano uccelli tutti diversi, di mille colori e di strani atteggiamenti, che più risaliva e più gli indicavano la strada verso la superficie, dandogli coraggio e forza. Certo, quegli uccelli erano diversi da lui e diversi dai suoi amici pesci, ma nonostante questo si erano sempre mostrati disponibili e sempre l’avevano stimato per la forza di volontà con la quale agiva, nuotava, risaliva e si comportava con tutti. Seppur di specie completamente diversa, l’apprezzavano per ciò che faceva. Il Diverso, man mano galvanizzato da tutto ciò, risaliva e risale il mare sino alla luce che da molto tempo, forse da sempre, non vede.
Il Diverso è arrivato qua. E’ arrivato ad essere circondato da tanti pesci che gli fanno compagnia, sia vecchi che nuovi, e da diversi uccelli che ormai lo vedono come un amico e che, quando si tuffano in mare, non mancano mai di salutalo, di chiedergli come va e di dargli una mano se ne ha bisogno, perchè lo stimano.
Io ora però non so che fare. Io, io che sono il Diverso, non so dove andare. I pesci che mi circondano, quei vecchi e nuovi amici che stanno attorno a me, non sono come me! Sono diversi, e con le loro mille sfumature mi fanno sentire a volte vicino e a volte immensamente lontano da loro. Gli uccelli che mi conoscono, quei compagni di viaggio incontrati in università, non sono della sua stessa specie: certo hanno stima di lui, ma sono dei volatili, sono tutt’altra cosa. E poi io, io mica sono un pesce. Io non nuoto e non sguazzo amorevolmente nell’acqua: lo faccio per bisogno, ma il mio desiderio è uscirne e conquistare la terraferma. I miei amici pesci, invece, se ne stanno bene qua.
Sono ancora solo, e me ne sto accorgendo. Sono ancora solo perchè, per quanto vada d’accordo con i miei nuovi amici, ho ancora quella barriera che mi tiene lontano da loro: io voglio uscire dall’acqua, loro no, e per quanto provi a parlarne con loro, a confidarmi con loro, vedo che non c’è nessuno che abbia il coraggio di far spuntare la testa fuori dall’acqua. Io voglio un mondo diverso, voglio un modo di vivere più giusto, voglio uscire da tutti i canoni per poterne riscrivere di nuovi, voglio realizzare i miei sogni di giustizia e libertà, non voglio più far male a nessuno: gli altri? No.
Ecco perchè sono solo.
Ecco perchè sono ancora solo.
Io voglio gestire le amicizie come ritengo sia giusto gestirle: superando gli schemi che mi sono stati insegnati, riscrivendo un modo di vivere le relazioni interpersonali che mi consenta di volere davvero bene ad una persona, di potermi davvero fidare di lei quasi fosse un fratello o una sorella indipendentemente dal suo sesso, dal colore della pelle e dal suo credo -qualunque credo-.
Io desidero essere sempre sincero con gli altri, dicendo tutto quello che penso incluse le cose scomode, quelle “che è meglio se eviti” perchè, che cazzo, la sincerità per me è un valore più importante del dolore che può fare essere schiaffeggiati in faccia dalla realtà. Io vorrei poter essere me stesso sia nel dire le cose più belle che in petto, che allo stesso tempo nel dire le più brutte, con quella leggerezza e quella sincerità dell'”essere se stessi” che mi manca tanto, troppo. Sconfiggere l’ipocrisia e le formalità regalando al prossimo tutto me stesso, sia io brutto o bello, delicato o grezzo, brutale o sensibile.
Io vorrei poter far capire a chi mi circonda del perchè credo nelle mie idee, del perchè le pratico, e vorrei poter condividere con tutte e tutti quel magico e magnifico sentimento di unità e fratellanza che ci vede tutti sulla stessa barca, tutti uniti nel navigare lungo le tempeste della vita assieme, unendo le forze e gli sforzi consci che un giorno la tempesta finirà e saremo finalmente approdati nell’isola che non c’è, l’isola dei nostri sogni dove le ingiustizie sono scomparse e la vita è fatta da noi, dipende da noi, è fatta per noi. Vorrei poter condividere con tutte e tutti i pesci miei amici quell’irresistibile desiderio che mi stringe il cuore, quell’adrenalina che mi dà la forza di andare avanti, quella brezza che soffia fra i miei capelli e, mentre mi viene la pelle d’oca, sussurra sibilando fra gli alberi e le foglie la parola “libertà” che mi spinge in avanti, oltre questo mondo verso qualcosa di altro, di diverso, di migliore e di più giusto per tutte e tutti. Vorrei uscire dal mare e scorgere il mondo, un mondo da disegnare assieme agli altri, diverso da quello già costruito da tutti quelli che ci vedono solo come pesci da pescare: liberi di essere noi stessi e liberi di essere il meglio, il giusto, l’equo, il felice.
Vorrei, vorrei…
Vorrei tutto questo e mi muore il cuore mentre sto per scrivere la realtà. La realtà è che sono solo a desiderare tutto ciò, e che ogni volta che parlo con i miei amici pesci, ogni volta che mi illudo di poter scorgere qualche barlume di desiderio di riscatto, presto l’entusiasmo si spegne innanzi ai freni a mano tirati, al “no, io non sono come te” che mi sento dire in mille modi da loro. Sono stufo di ricevere delusioni da chi mi circonda, stufo di non poter condividere con nessuno il mio credo, stufo di essere solo.
Per me l’ amicizia vale tantissimo, perchè è quel sentimento di fratellanza che lega indissolubilmente me agli altri, come un filo d’acciaio che ti stringe a chi vuoi bene che ti impedisce di abbandonarlo sia nei momenti di gioia che in quelli di difficoltà, perchè credo che il mondo debba essere basato sulla fratellanza e non sulla competizione, sulla collaborazione e non sull’odio reciproco, sul bene fraterno e non sul male dell’invidia… per gli altri e le altre è una parola vuota che dura al massimo mezza estate!
Per me l’amore è il sentimento più forte che unisce le persone le une alle altre, che non ti fa sentire solo, che ti rende parte di qualcosa di più grande del tuo ombelico e che davvero vale tantissimo; per me è il rendersi conto razionalmente, senza badare alle tempeste delle emozioni e dei sentimenti ormonali, che sei davanti ad una persona che ti fa stare bene sempre, nella buona e nella cattiva sorte, se sei innamorato ma anche se non lo sei, e che con te può davvero costruire qualcosa di grande e forte e stabile e bello…
per gli altri e le altre è uscire con qualcuno, accontentarsi di una cotta e mettersi assieme “finchè dura”!
Per me la speranza è quella macchina a motore che, con carburante infinito, mi trascina anche se non voglio verso i miei traguardi, dandomi coraggio e forza di credere in ciò che credo sia giusto, eliminando la vergogna di essere preso in giro per quel che credo, di essere emarginato per quel che sono, di essere escluso per ciò che dico. La speranza è quel fucile armato di tulipani che punta verso un futuro diverso e possibile, che osa dire ad alta voce “questi non sono solo sogni e nemmeno follia: questo è il futuro che voglio e che cercherò di creare per tutte e tutti voi, perchè vi voglio bene e voglio fare qualcosa per voi. Perchè la mia vita, se non fosse spesa per voi, non avrebbe senso di esistere”. La speranza, cocciuta e inarrestabile per me… per voi è vuoto totale! E’ stupore e silenzio, è imbarazzo, è il ronzare fra le vostre menti “lui non è normale” !
Che ci sto a fare allora qui? Da solo, diverso da voi, ora che dopo quattro anni da quell’esperienza che mi accese il cuore e lo spirito mi ritrovo accoltellato dalle vostre delusioni? Cari pesci mi avete deluso: chi più, chi meno… chi troppo. Siete distanti da me, tutte e tutti, e pure quelli che credevo essere, per una volta almeno, vicini a me (tu, N, sì, proprio tu) si sono rivelati abitanti dei mari e degli abissi, irrinunciabili nuotatori del mare che seppur affascinati dalla mia voglia di libertà, non mi seguiranno mai lungo la mia strada. Così, alla terza birra della serata, davanti a questo PC carico di testo illeggibile e mai letto da nessuno, io mi chiedo che cazzo ci sto a fare qui.
Che cazzo ci sto a fare se devo andare in contro a disillusioni e delusioni continue? Che cazzo ci sto a fare se sono sempre e per sempre solo? Che cazzo sto facendo? Non è forse meglio arrendersi, abbandonare il desiderio di uscire dai mari e conquistare la terra ferma, per accontentarsi di starsene qui, a nuotare su e giù con i miei amici, nel buio degli abissi, senza godere dei colori del sole del mare della terra delle piante del mondo intero? Questo dovrei fare, forse. Dovrei fare come i miei amici: non dar valore alle amicizie, buttarmi in amori vuoti ed inutili per il solo gusto di qualche gioia effimera, abbandonare ogni speranza rassegnandomi all’esistente presente, immutabile sempre e per sempre.
Se facessi così sarei come voi. Sarei assieme a voi. Sarei… sarei un diverso, un emarginato come voi: di quelli che si sono arresi, che si autocommiserano ascoltando canzoni malinconiche e buttandosi in amori improbabili quanto inutili, affogandosi di banalità e strangolandosi di finti rapporti ed amicizie usa-e-getta. Raga mi spiace ma io così vi vedo, e porca miseria mi fa troppo male vedervi così, perchè io sono fermamente convinto che quella sia la strada sbagliata, la strada scorretta, la strada senza uscite se non quella unica della depressione (e degli antidepressivi). Raga io non voglio schiantarmi su un muro e la strada che state percorrendo vi porterà a quello: vi porterà a qualche servo del sistema che vi convincerà che siete sbagliati, siete diversi, siete una ciambella uscita senza il buco a cui il buco va rifatto con la forza: perchè se non siete come tutti gli altri siete voi gli sbandati sbagliati, non gli altri. Siete un pezzo difettato, una lampadina rotta, una penna che non scrive bene, una ragazza brutta ed un ragazzo gracile, siete un sasso nella scarpa della società, un riccio che attraversa la strada e che viene schiacciato sotto le ruote di un’auto rombante, un piccione infetto di chissàquale malattia che muore da solo, una pecora nera, un pesce piccolo, un cane che non sta seduto, siete una cabina telefonica nel duemiladiciotto, una bicicletta sgonfia, un aereo di carta che vuole volare verso l’infinito anche se non ha motori che lo spingano avanti. Raga voi siete questo, e io vi amo per questo: ma voi… voi volete rimanere questo, e tutto ciò mi ammazza il cuore.
Io voglio ancora nuotare verso la superficie dell’acqua, voglio uscire dal mare dove sono costretto a nuotare, e non sapete quanto fa male vedere che nessuno, nessuno di voi vuole uscire assieme a me per costruire qualcosa di nuovo, per osare immaginare il diverso, per gridare con coraggio al mondo: “non ci sto!!!”.
Mi avete deluso.
Io non so cosa fare. Non vi voglio perdere perchè vi amo, ma non c’è nulla che mi leghi a voi salvo il fortissimo sentimento di fratellanza che mi dice “siete come me, pesci immersi in un mare mentre là fuori il mondo ci aspetta, e ci usa solo quando ha bisogno di mangiare”. Quanto vorrei vedervi ribelli come me, almeno un po’, almeno una volta… una sola.
Disgraziatamente solo
Terribilmente affranto
dalla chiara percezione
d’esser un’unità nell’oceano

Cane randagio
immerso in una realtà ostile
sogno l’impossibile
per sentirmi ancora vivo

Vi odio perchè vi conformate alle norme di questa società
Vi amo perchè vi sento vittime come me
Ma sono sempre
solo.

Fa male

troppo male .

23:54

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Trentasettesimo post

Venerdì 28 Settembre 2018, ore 6:42

Parte sul treno mattutino questo scritto, che spero di riuscire a concludere prima di arrivare a destinazione. Ci sono due cose che mi frullano per la testa ultimamente, e delle quali sento per l’ennesima volta il bisogno di scrivere, ricelebrando questo rito che ormai mi accomoagna dal lontano 2014.
Scrivo inanzitutto perchè un’altra estate se nè andata, affogata dallo studio e dal quasi nullo tempo libero che sono riuscito a ritagliarmi. Un’estate, per l’ennesima volta, vissuta rinciuso tra muri e finestre, senza godermi la liberà del sole estivo, autoimponendomi la disciplina per preparare gli ultimi esami. Una fatica, oltre che fisica, soprattutto psicologica: non è stato facile gestire e reggere le mie ansie, lo studio intenso, la paura di non farcela e quel senso di smattimento davanti al tempo che scorre ma, soprattutto, alle forze che si esauriscono senza poterci far niente. Trovarsi a dover battagliare per imparare gli ultimi concetti, con il fisico che dice “NO” con la sua inappetenza, e la psiche che si contorceva facendomi svegliare con l’ansia addosso, con il panico e le paure ingigantite all’ennesima potenza. Non è stato facile, ma ormai ce l’ho quasi fatta: è questa la frase che voi lettori inesistenti vi starete aspettando. Invece no, perchè la frase che vi voglio regalare è un’altra: a che prezzo?
A che prezzo ho conquistato ormai questi tre anni di studi e di esami? A che prezzo ho raggiunto questo (primo) traguardo di studi? Ad un prezzo alto. Alto perchè ho pagato il mio autoisolamento di anni fa (cfr post precedenti) che mi ha fatto toccare con mano la solitudine più assoluta. Alto perchè sono stato male ed ho fatto tanta fatica per raggiungere ogni singolo voto registrato, studiando sempre e comunque tre volte tanto quel che studiavano gli altri. E’ stata dura, molto dura, e dolorosa questa LT. Ho sofferto la perdita di contatti, di interessi, anche delle relzioni amorose con una persona. Mi sono privato di molto, come se avessi afferrato una scure e ad ogni anno avessi tagliato una parte del mio corpo: inizialmente, per il primo anno, ho dovuto tagliare entrambe le mie gambe, rendendomi impossibilitato dal camminare (o scappare) lontano da quel mondo; ho poi tagliato qualche dito della mano al secondo anno, e le orecchie, per non sentire le sirene che mi chiamavano lontano dallo studio e per non poter più indicare chi, diversamente da me, riusciva a condurre una vita equilibrata -e da me invidiata- ;ho infine tolto un occhio, per non vedere più così distintamente quanto era lunga e tortuosa la strada che mi separava, in quest’ultimo anno, dal traguardo. Arrivo oggi, ormai vicino alla linea d’arrivo, completamente mutilato: non sono più quello di prima, ma soprattutto sono diventato per diversi aspetti di me stesso uno storpio orripilante. Chi mai mi vorrà più in sua compagnia? Solo il futuro potrà dirmelo, io penso che in ogni caso, qualunque sia il giudizio finale che si potrà dare a questi sforzi, il dato oggettivo ed ineluttabile sarà quello riguardo la loro entità. Mastodontica.

Passo poi, con un po’ di confusione interiore, al secondo punto della mia giornata. Vedo oggi, sperimentandolo sulla mia pelle, cosa ha significato e cosa significa tuttora tutto ciò che ho fatto negli anni a chi mi circonda. Io sono una persona libera, sono un ragazzo che nella vita compie le sue scelte senza dover (ma soprattutto, senza voler) chiedere il permesso a nessuno. Sono un autonomo dell’esistente, mi reggo sulle mie gambe e cammino verso i miei obiettivi senza dovermi mai aggrappare ad un traino, o appoggiare a qualcosa o qualcuno per prendere fiato. Senza mai chiedere indicazioni per il percorso che voglio fare. Questa è la mia libertà, la libertà che mi ha reso intraprendente e creativo, che mi vuole far agire, che mi agita interiormente alimentando il fuoco della rivolta e dell’indignazione verso le ingiustizie e verso la violenza verso i deboli. La libertà alla quale cercherò di non rinunciare mai.
Parlo però di questa libertà perchè mi rendo conto, oggi, di come questa risulti un’arma a doppio taglio. La mia libertà, la capacità di scegliere della mia vita senza farmi influenzare, senza mai dipendere davvero da qualcosa o qualcuno per le mie scelte, è una rosa irta di spine: c’è chi la ammira ed a momenti vorrebbe coglierla, ma essa è pungente ed insidiosa. E’ una libertà che si lascia ammirare, ma non domare. Entrando nello specifico, ho capito che il mio modo di comportarmi, di agire e di “essere libero” è stata una lama affilata per le persone che mi volevano e mi vogliono bene. Una lama affilata perchè le mie scelte e i miei comportamenti liberi -come l’isolarsi per lo studio, ma anche per altro, il rifiutare la compagnia di qualcuno o il suo invito, ecc…- sono stati vissuti come ferite da chi li ha ricevuti. Come dolori ed incomprensioni, come dei fili che si spezzano. Fili che si spezzano, sì, perchè le relazioni sono questo: essere “legati a qualcuno” non è forse l’immagine più efficace per comprendere come il “legame” affettivo sia qualcosa che vincola, che stringe, come un filo che parte dal nostro ombelico e va verso quello degli altri. Un legame che ci permette di connettere i nostri sentimenti, che ci concede di provare emozioni assieme, di connetterci empaticamente all’altro e di condividere con lui gioie e sofferenze, come lo sono negli esempi dei testi di Fisica 2 due sfere cariche collegate da un filo conduttore. Ecco, essere liberi significa spezzare e staccare questi fili ogni qual volta manifestiamo la nostra libertà. Spezzare e scollegare noi dagli altri, e ricollegare quando lo desideriamo: ecco la libertà. Libertà, sì, che va a braccetto con la solitudine come si potrà ben capire. Ma libertà -ed è questo quello su cui voglio focalizzarmi- che nel suo manifestarsi, e nel suo scollegarsi dagli altri, li ferisce. Perchè gli altri, siano essi liberi o meno come me, soffrono di questo scollegamento: si chiedono “perchè?” senza trovarne una ragione, si sentono esclusi e scartati, rifiutati e gettati come carta straccia, come un sasso nella scarpa. Si sentono male perchè la loro sensazione, il loro sentire, la loro stretta allo stomaco dovuta a quel legame che viene rotto bruscamente (o brutalmente?) è quella dell'”essere inutili”, dell'”essere insignificanti”. Forse è proprio così che ho perso qualcuno, senza rendermi conto del male che facevo con i miei comportamenti, senza pensare che la mia libertà ed il suo manifestarsi, forse, poteva essere giustificata, preavvisata, senza render troppo dolorose queste rotture. Il dire “non ci sono oggi perchè…” anzichè dire “non ci sono oggi.”, lo scrivere “non mi sentirete per un po’ perchè…” anzichè scomparire nel nulla senza dare spiegazioni, insomma il riuscire a trovare la sensibilità per pensare
“come si sentiranno quelli che stanno all’altro capo del filo che ci lega?”
A me questa sensibilità è mancata, per molto tempo. Mi è mancata ed ho scontato la solitudine che questa ha generato in me, ma soprattutto non ho mai scontato -e mi dispiace- il dolore che ho fatto agli altri. Quello, quel dolore, io non l’ho mai capito e mai nemmeno immaginato fino a poco tempo fa, quando l’ho finalmente vissuto pure io. Ho vissuto il mio essere libero sperimentando sulla mia pelle la libertà di un’altra persona (N) che con il suo manifestarsi, mi ha fatto male. Mi ha fatto male ma, al di là del dolore, mi ha fatto riflettere su ciò che significa essere come me, mi ha fatto capire cosa vuol dire far subire agli altri tutto questo, e cosa significa non limitarsi e non “giustificarsi”. Mi ha fatto capire insomma quanto possa essere importante “pensare un po’ anche agli altri” prima di agire, prima di staccarmi e riattaccarmi, prima di far del male agli altri. Si può fare a meno di infliggere dolore agli altri? Non lo so. Si può arginare ed un po’ limitare? Penso di sì, o almeno lo spero. Ora, per lo meno, so come e perchè devo provare a farlo.

07:41 (giusti per l’arrivo)

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Trentaseiesimo post

Domenica 2 Settembre 2018, ore 17:42

Voi non avete idea. Non avete idea di cosa voglia dire sapere di essere cattivi dentro, sapere di avere un verme nell’animo che divora noi stessi e peggio, divora chi ci sta intorno. Non avete idea di cosa significhi sapere di far male agli altri standovi solo appresso, anche solo frequentandoli. Non avete idea di cosa significhi, stare male dentro, così male, perchè consci di essere cattivi. Non avete idea di cosa voglia dire, sapere di aver flagellato per anni ed anni persone buone, aver loro fatto del male, averle rovinate dentro senza nemmeno accorgersene. Non avete idea di cosa significhi guardarsi alle spalle e scoprire quanto sia orribile il passato, e quante le scie sanguinolente lasciate dietro il nostro cammino. Non avete idea e, sapete una cosa, non ve lo auguro. Perchè tutto questo genera un’angoscia terribile, quotidiana, infinita. L’angoscia del far male al prossimo, l’angoscia di fare del male alle persone più vicine a noi, quelle che sempre amiamo, quelle a cui mai e poi mai vorremmo far del male e vederle soffrire. Non avete idea dell’angoscia al sol pensiero che un giorno le persone che amate, quelle a cui volete tanto, troppo bene, vengano da voi e , vomitandovi addosso tutto il male che avete loro fatto, vi abbandonino. Non potete immaginare il terrore che ciò accada. Non sapete quanto mi uccide questo pensiero.
Perchè questo mi è già accaduto, è accaduto con C e mai potrò ricucire quella ferita profonda ed abominevole che io stesso ho aperto ed allargato quando la conoscevo, quando ero -o almeno mi illudevo di essere- un suo amico. E’ un dolore bestiale, una paura quotidiana, un rimorso ad ogni pensiero che si rifrange su tutti e tutte le altre, sulle persone che ancora non mi hanno abbandonato ma che, chissà, staranno covando rancore per quel che sonmo, quel che faccio e quel che ho fatto! E’ terribile, è terribile sapere di essere un portatore sano di peste, un untore di malanni, un reietto che anora non è stato cacciato dal branco. E’ terribile. E’ il mio incubo, o per lo meno uno dei miei incubi ma per certo quello più angoscioso. E’ quella mano che mi si stringe al collo e mi soffoca, quella mano che mi dice “sei solo” e quell’idea, quella sensazione che sì, lo sto davvero diventando, solo!! Non avete idea dell’agitazione dell’agitazione che essa genera. E’ terribile. Del rimorso, ma il rimorso a che serve? Che se ne faranno le persone ormai andate del mio rimorso? Che se ne faranno? Ci scherzeranno sopra? Si faranno un’amara risata? Il rimorso, il rimorso che mi fa parlare da solo, il rimorso che nel mio silenzio mi fa sbottare, come uno schizofrenico, come un matto. Io quando sono da solo e ci penso, parlo e mi insulto da solo. Mi insulto da solo, come i matti! E’ terribile. E’ l’angoscia più terribile, il rimorso per ciò che ho fatto. Ciò che ho fatto nel passato è la prova indelebile di ciò che sono, cioè una persona cattiva. Cattiva e si vede, cattiva e la gente se ne accorge. Per quello mi stanno alla larga! Non mentitemi, ditemelo che sono una persona cattiva se lo pensate! Io lo so che è così. Dio mio, non avete idea del dolore. Non avete idea della paura di essere abbandonati e di rimanere soli. Non avete idea del terrore di ricapitombolare nel tetro strapiombo della mia solitudine, quella vera, autentica, completa, totale, assoluta! E’ terribile. Un terrore terribile.
Amici miei non voglio perdervi per nessuna cosa al mondo. Amici miei, non mi abbandonate. Amici miei, se c’è qualcosa che non va, che sia anche la cosa più intima e personale, ditemela senza paura! Che io possa aggiustare il mio carattere, che io possa guarire il mio malanno, che io possa stare attento a non farvi del male, nè a voi nè agli altri. Amici miei, non abbandonatemi, ve ne prego. E non dimenticate che io non vi voglio far del male. Io ve ne faccio, lo so per certo, ma non lo desidero! Non so come evitarlo, non ci riesco. Ne soffro tanto, tantissimo. Vorrei parlarvene ma devo trovare il tempo ed il coraggio per dirvelo. Non mi abbandonate amici!
Non fatelo mai ve ne prego. Soffro già per C, soffro già per aver trattato malissimo I, soffro già per tutte e tutti gli altri. Amici miei, davvero, coraggio. Io sono fatto così, ho bisogno del vostro aiuto per cambiare.
E’ il terrore che mi attanaglia e mi fa male.
M io vi voglio troppo bene, davvero ve ne voglio tantissimo. Non lasciatemi, e farò tutto ciò che posso per voi. Non fatelo, ve ne prego. Ve ne prego. Io vivo grazie a voi, siete davvero importanti per me, tutte e tutti! Non sapete quanto. E tu, C, tu non sai quanto sto male per te. Non sai quanto mi dispiace ciò che è successo. Non sai quanto ne soffra, e non sai quanto vorrei non essere stato ciò che sono stato, ed essere meglio di come sono ora. Non sai quanto mi manchi. Oh, C. Mi dispiace da morire. Davvero. Mi dispiace troppo.

18:01

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Trentacinquesimo post

Venerdì 27 Luglio 2018, ore 16:58

Era da tanto che mi dicevo di dover scrivere, ma solo ora mi ci sono meso: è così, in un caldo pomeriggio di fine Lulgio, che la mia mano ripercorre questa tastiera ormai consumata -dallo studio, più che dal piacere della scrittura- per vomitare su un post ancora innocentemente bianco i miei pensieri, le mie paure, le ansie e le insoddisfazioni che cercano ogni giorno di sopraffare la speranza, l’ottimismo e la gioia che non vuol mai morire nel mio animo.
E’ un orario strambo, un’orario pomeridiano nel quale poche volte mi sono lasciato andare alla riflessione personale, ma nel quale oggi mi dedico e mi libero, di tutto, o almeno spero. Da dove iniziare? Bella domanda. Io credo che la cosa più saggia, e che meglio di qualunque altra può comprendere il mare di cose che son successe in questi infiniti mesi, sia la parola cuore.
Cuore perchè è ciò che abbiamo dentro, quel piccolo organo che ci spinge -come ci piace immaginare- a fare e non fare, dire e non dire, emozionarci, soffrire e gioire, agire, amare. E’ il cuore, alla fin fine, la radice delle nostre vicessitudini quotidiane: è con il cuore che ci svegliamo la mattina e reagiamo al mare di ingiustizie e scorrettezze di questa società deforme e malsana, è con lui che ci approcciamo ai nostri amici e conoscenti per aiutarli e farci aiutare, per parlare ed ascoltare, per confrontarci, capirci, accettarci (e no). E’ lui che ci spinge a credere in qualcosa di più grande di noi stessi, sia esso l’amore verso un’altra, che quello verso il prossimo, verso la collettività, verso tutte e tutti gli altri. Il cuore ci fa fare tutto, ci eccita, ci riempie di felicità ed energia, ma ci rattrista anche, e ci abbatte quando le cose non vanno bene, quando ci sentiamo traditi, quando realizziamo che noi, per gli altri, non contiamo nulla. Quando comprendiamo di essere sempre e per sempre soli nei nostri io, quando la parola amica non ci basta per risollevarci dai baratri -ma anche dai banali selciati- nei quali siamo inciampati e caduti. Il cuore alla radice di tutto, l’amore nella sua accezione più vasta: amore per la vita, per gli altri, per sè stessi, per ciò che ci circonda. Amore, e sempre amore.
Cosa non è andato in questi mesi? Tanti sono gli ingranaggi del mio animo che scricchiolano e danno segni di cedimento, ma altrettanti sono quelli che roteano bene, oleati a dovere, e che anzi lavorano meglio che in passato. Ho la sensazione che qualcosa stia cambiando dentro di me, ma non è l’amore per una ragazza (l’ennesima?), è altro. E’ la chiara percezione che qualcosa di confuso e fosco stia crescendo in me, lasciando da parte l’ormai consumato ragazzo di 18anni che iniziò a scrivere su questo blog da nessuno mai letto, ed un nuovo CK96 che si affaccia ai prossimi mesi ed anni. Qualcosa cambia nelle relazioni sentimentali: io ormai ho raggiunto una considerevole stabilità e convinzione di ciò che mi spinse anni fa a scrivere qui. Iniziai a scrivere al nulla, nella rete, perchè non avevo nessuno che mi potesse ascoltare: nell’assurdità di una vita vissuta in mezzo agli amici, ai parenti ed ad una ragazza -mai più avuta- mi sentivo mostruosamente solo. Ero solo perchè non avevo con chi parlare del mio io, ero solo perchè non avevo molto da spartire con chi mi circondava le giornate, se non un confuso odio per la società. Molto confuso, molto poco produttivo. I tempi sono cambiati, e parecchio.
Oggi non sono solo: come ieri, ho degli amici -alcuni son gli stessi, altri sono nuovi- ed ho una famiglia con la quale, bene o male, vado molto più d’accordo che in passato (certo, fatta eccezione per i miei regolari momenti di isteria e nervosismo, che fanno di me agli occhi dei genitori uno schizzato). Oggi, comunque, non sono solo. Non sono solo perchè ho conquistato un rapporto più sincero con i miei amici, il quale anche se caratterizzato da alti e bassi mi permette di essere più io, più CK96 e meno stereotipo o personaggio caricaturato. Sto bene con loro, sto bene con me stesso. Non sto sempre bene assieme a loro, però. Ho come conquistato il valore della solitudine, il valore dei momenti passati da soli, a riflettere su sè stessi, a riordinare le idee e a capire dove sono, con chi cammino, dove voglio andare. E’ un’elaborazione mentale che si rende necessaria dal momento in cui devo agire, ed è richiesta in me una costante capacità di vedere dove finisce l’orizzonte, di capire quali siano le strade migliori per raggiungere l’obiettivo prefissato, e questo avviene in tanti, distinti ambiti. Per questo, ho bisogno a volte di star solo, e la cosa un po’ mi preoccupa perchè so, so per certo, che non è quel che mi servirebbe davvero. Stando solo io risolvo i miei problemi di animo, sciolgo i garbugli, srotolo matasse pasticciate di sentimenti, volti e progettualità: ma questo dovrei farlo con la Lei che sto aspettando. Cerco o aspetto solo? Non lo so, direi che la sto cercando e sto agendo, come dicevo prima, secondo quella strada che mi promisi di percorrere dopo l’ultimo schianto quasi mortale del mio animo: uno schianto dove una macchina a tutta corsa che voleva entrare nell’io di lei, trovò porte chiuse, e lì si spalmò. Il mio io, che voleva condividere tutto se stesso con lei, finì per spiaccicarsi sull’incomprensione e l’incomunicabilità della persona che… che era la persona sbagliata. Oggi no.
Oggi io non corro, ho imparato a guidare piano: conosco, osservo, parlo e lentamente, dico molto lentamente, mi apro con l’altra. Davanti a chi mi dice di correre, di approfittarsene, di buttarmi, io rispondo “calma”. Di fronte a chi mi dà dello sciocco e del baucco a non fare come fan tutti, io sorrido e -anche se un po’ imbarazzato- spiego la mia azione alternativa e diversa dei rapporti interpersonali. Io con molta pazienza, e con altrettante difficoltà, parlo, conosco, e talvolta scarto le Lei che apparentemente mi piacerebbero, ma che poi, parlando, scopro non sarebbero compatibili con me. Non mi diverto, ma imparo tanto degli altri e di me stesso. Non vinco la gara del sesso, ma non mi dispiace perderla volta per volta: sono riuscito ad accettarla così, a comprendere e rispettare il mio bisogno di profonda intesa e sincerità, conscio che il buttarsi ad occhi chiusi potrebbe essere molto più doloroso di ciò che faccio ora.
Sono, seppur relativamente, sereno. Anche perchè le mie attività ed il mio impegno a 360° su quel che mi circonda e quello in cui credo, sfama con abbondanza la mia voglia di essere felice, di gioire di ciò che faccio assieme ad altre ed altri come me. Le novità di quest’anno sono davvero belle, ed io sono felice di aver riposto in esse una parte del mio cuore e del mio tempo libero. C’è novità ed inventiva, ci sono continui stimoli di pensiero, ci sono anche delle Lei da scoprire se è per quello, ma senza fretta.
L’amico di sempre, lui, non fa come me. E forse anche per questo ha attraversato un periodo difficilissimo, dal quale inizia solo ora ad uscire con enorme fatica. Lui si è gettato, come un bambino, nel mare di ortiche che si è rivelata una relazione mai nata, un aborto di amore -il quale sarebbe stato in ogni caso deforme e disabile-. E’ brutto vedere, da fuori, l’orrore che generi l’amore nella sua accezione più sentimentale quando questo muore. Vedo tanta perdita di sensibilità, e sono tutti che ci perdono: lui che sta male e, acciecato dalla furia, fa male agli altri e alle altre. Non va bene così, no: non bisogna lasciarsi sopraffare dalla furia passionale, ma rimanere coscienti, saldi a terra, e valutare se quel che si sta facendo è un bene o un male. Bisogna star calmi, bisogna respirare lentamente e capire che tutto ha un limite, ed il limite dove il mio cuore incontra quello degli altri va ben valutato. Perchè il mio cuore può far bene, ma può anche far male. L’amico di sempre non l’ha capito, ma forse un giorno, ripensando al passato, lo capirà.
Io come dicevo, aspetto, paziente. Le occasioni ce le ho, le vedo e sono felice nel notare che esistono (perchè un tempo credevo di no!). Sono lì, sta a me scegliere quale intraprendere, con calma, senza fretta, tenendo a bada i sentimenti e ragionando con la testa. Son fiducioso, andrà tutto bene, che sia fra un mese o fra un anno: non importa quando prendere la strada, basta che sia quella migliore. Quella giusta.

Dentro di me, invece, come sto? Come sta l’odio che brucia da anni ed anni? Direi bene. Odio sempre più questo mondo ma non resto passivo, non subisco: organizzo ed agisco, costruisco alternativa, amo ciò che è diverso e ciò che mi spinge a credere in un futuro migliore. Sono felice mentre scrivo queste cose, perchè è questo ciò che mi dà gioia, gioia e rivoluzione.
Non è l’amore per la Lei a rendermi felice, perchè una Lei ora non c’è: è questo. E’ la passione che spinge me assieme a tutte e tutti coloro i quali ho l’onore e la responsabilità pensantissima di chiamare nel mio cuore, nelle assemblee e nelle piazze COMPAGNE E COMPAGNI. Una parola bellissima, una parola carica di energia e amore e passione e vita e fuoco e fiamme e bellezza. E’ il sentirsi parte di quel mondo dove tutte e tutti noi crediamo in qualcosa di diverso, e vogliami raggiungerlo in tanti modi diversi, ma vogliamo raggiungerlo. E’ la speranza che questo mondo e questa società possano cambiare, è la fiducia e l’assoluta certezza che noi, noi uomini e donne di questo pianeta, non siamo fatti per odiarci, non per la guerra, non per l’invidia, non per lo scontro, ma per l’amore. Odio chi si accontenta e si rassegna, ma cerco di risvegliarlo dal torpore nel quale è caduto. Amo chi si indigna e trasforma l’indignazione in impegno ed azione, facendo esplodere con brutale violenza le catene dell’indifferenza che lo tenevano legato alla sua routinaria esistenza passiva. Non significa essere violenti o fuorilegge, non significa agire con cattiveria e rancore: significa non vergognarsi del proprio sentimento collettivo di amore per gli altri, e di praticarlo con passione: in una parrocchia come in un centro sociale, in un partito come in un’associazione. Questo è ciò che mi rende felice e fiero di vivere le mie giornate, orgoglioso del mondo di cui faccio parte e cosciente della missione che ho: la missione di non piegar la testa alla rassegnazione, di non cadere nella triste depressione che vedo attorno a me, tra i miei conoscenti, ma di rimanere sveglio e felice, di gioire delle piccole cose e di saperle vedere tutte, senza perderne nemmeno una. Di vivere con positività la vita, senza piangersi addosso per l’impossibilità di illudermi che ho, da sempre. Non si tratta di illusione, non si tratta di “sognare che il mondo possa essere diverso”. Si tratta di sapere, con lucida coscienza, lo schifo che ci circonda, e con altrettanta lucida coscienza analizzarlo, capirlo e cercare di correggerlo, proponendo altri sguardi, altri orizzonti, altre vie, altre possibili esistenze a questo mondo grigio e triste, dove sembra che conti solo la figa e i soldi, mentre i sentimenti non esistano.
Si può vivere colorati, si può vivere felici, basta sapere che sognare ad occhi aperti un mondo diverso è nelle corde di tutti gli esseri umani, e basta poter far il passaggio successivo: agire, muoversi, alzarsi dalle nostre poltrone ed organizzarsi, parlare, gioire assieme, costruire dal nulla qualcosa di nuovo. Armarsi di lucentezza negli occhi e di sana razionalità, e non smettere mai di guardare da tante, ALTRE prospettive la realtà che ci circonda. Tutto questo è bello, è bello compagne e compagni, e lo siete anche voi: siete belle e belli, perchè siete coloro i quali non si arrendono, non piangono, non cadono e non si abbattono. Siete quelli che camminano a testa alta, prendendo magari le stesse bastonate degli altri, ma consci del fatto che l’umanità non è nata per prenderle, e che un giorno tutti noi assieme vivremo nella pace e nel dialogo reciproco, senza paure, senza sospetti, senza invidie, ma con la bellezza dentro i nostri cuori. Ed assieme, assieme liberi dai potenti e dal potere, liberi dai vizi e dalle droghe che annebbiano la nostra lucida coscienza, liberi dai sentimenti animali che ci spingono verso odio ed intolleranza, cammineremo assieme verso un futuro equo e giusto, umano e leale, verso la felicità di tutti: perchè la nostra felicità si ha solo con la felicità di chi ci circonda.
Non è facile comprenderlo, non è facile trovare il coraggio per praticarlo, ma si deve e si può fare, si deve e si può tramandare il verbo che, in un modo o nell’altro, ci racconta di come si debbano deporre scudi ed armi fra noi stessi, parlandoci con sincerità ed imparando ad accettarci per ciò che siamo, correggendoci se necessario, verso la ricerca dell’armonia fra di noi.
L’intolleranza non vincerà mai. Avanzerà assieme all’egoismo e l’indifferenza, calpesterà i nostri sentimenti, ma non vincerà mai: finchè nasceranno nuove persone come noi, fintanto che la fiamma che alimentiamo continuerà a rigenerarsi, non moriremo mai. Non finiremo mai. E alla fine sconfiggeremo tutto il male ed il destino della nostra umanità si compierà fino in fondo, divenendo un grande, eterogeneo ma pacifico popolo mondiale. Nella pace, nell’uguaglianza, senza ingiustizie, tutti impegnati nel nostro lavoro: ognuno di noi farà il suo piccolo, la sua parte, per portare avanti il grande popolo mondiale sulla strada del progresso. Eravamo scimmie, saremo l’universo.
E basta così.
Adelante siempre

17:57

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Trentaquattresimo post

Martedì 24.04.2018, 7:55

APPUNTI RAPIDI di una bella giornata

Assieme alle stagioni dell’anno, è bello vedere come dentro di me si accavallino contemporaneamente le stagioni dell’anima. Sì, perchè questa primavera mi sta restituendo un po’ di quello che ho perso d’inverno, quando i sentimenti sbagliati ed a senso unico hanno cozzato ripetutamente su di me: ora si rinasce, e si rinasce in un modo molto bello, dove ogni giorno che passa l’umore migliora e, nonostante le difficoltà, mi consente di andare avanti.
Si rinasce svegliandosi la mattina con il bel tempo, dove il primo sole accarezza le nostre colline, sveglia con un sussurro gli alberi in fiore ed i suoi abitanti alati, richiama il gallo a cantare e l’asino a ragliare, in questo piccolo antro del nordest dove l’industria e la cementificazione non sono riusciti a distruggere ancora del tutto la vita agreste e rurale di questi popoli.
Si rinasce prendendo il treno, dai cui finestroni non si vede più un panorama grigio e spento, ma campi colorati, ed orizzonti illuminati, ed erba nuova che rinasce dal terreno, e papaveri rossi lungo la massicciata di un treno che da più di cent’anni non ha mai smesso di scorrere tra le due città.
Si rinasce incontrando amici e conoscenti, vecchie facce e nuove persone che come me la mattina scendono verso lezioni, laboratori, esercitazioni e talvolta esami. Incontrandoli lì, sul treno, ma anche giù, nella città dei dottori che sprizza vita ed energia come non mai in questi mesi, con feste, iniziative, attività sociali e realtà, tantissime realtà di movimento che proseguono con ancor più fervore quel moto continuo che le caratterizza. E’ anche la rinascita, in un certo senso, della vita politica che con molte difficoltà e altrettante speranze si rimette in moto, ritrovandosi, allargando le proprie fila, conoscendosi vicendevolmente.
Così si rinasce, con uno sbocciare di novità, di persone e situazioni nuove che lasciano scorgere orizzonti vastissimi ed infiniti, di varietà e pluralità inimmaginabili proprio come un papavero, che con i suoi semi darà vita ad altri dieci fratelli tutti diversi, ognuno con le sue imprevedibili singolarità tutte da scoprire.
E’ una rinascita dell’animo, la boccata d’ossigeno che avrei tanto sperato arrivasse e che finalmente -ed anche insperatamente- mi è stata concessa dal buffo destino. Una boccata che devo ingurgitare tutta, senza sprecarla, e che devo gustare con calma e pazienza, per assorbirne tutte le sfaccettature di bellezza senza perderne neanche un po’. Una boccata di sapori nuovi, tutti incredibilmente piacevoli, e di visi, risate e sorrisi, di momenti passati in compagnia di persone nuove e ritrovate, di serate al fresco della luna, sui monti o lungo il fiume, nell’incessante ricerca della propria identità. Un’identità, la nostra o almeno la mia, in continua mutevole evoluzione, come un fiume che gorgoglia tra le rapide e che si rilassa poco dopo, ma che sempre scorre, donando e ricevendo acqua con affluenti ed effluenti, in un continuo scambio di essenze. Un concentrato di vita, di sentimenti, di nuovi saperi e di esperienze che mi faranno crescere, che mi rendono ogni giorno più ricco e conscio di me stesso, tanto che passeggio con le tasche piene di nuovi saperi e la sera, a letto, fatico a riordinarli tutti. Un bel periodo, una vita serena, un’intermezzo felice di un film fino a qui un po’ cupo, che spero non si limiti ad essere solo spezzone, ma che prosegua come leitmotìv dei mesi che verranno. E’ bello sì, bello e difficile vivere, ma affrontare tali difficoltà vale la pena, perchè le gioie che raggiungiamo ci riempiono il petto di felicità come nessun’altra cosa mai farebbe.

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