Domenica, 20.02.2022, 9.10
E mi ritrovo qui, a scorrere con i miei occhi le campagne nebbiose, ancora addormentate, che questo treno silenzioso attraversa. Sono le pagine di un libro, pagine che piano piano scivolano lungo le mie dita, sottili e talvolta anche taglienti, se prese dal verso sbagliato. La carta sottile mii accarezza, profuma man mano che la leggo. Profuma di ricordi, di scorci visti e rivisti in questi anni, echi dal profondo del mio corpo, luci nel buio di lunghe caverne inesplorate. È il profumo dei casa mia, il dolce gorgoglio della macchinetta del caffè col manico rotto, il sole che si affaccia sulle pareti gialle dei miei vicini di casa e sulla collinetta che si accoccola sulle pendici dell’altopiano. Mi verso il caffè nella tazza blu piena di latte freddo, e resto li, seduto, a guardare la lampadina al neon che si rispecchia su quella superficie beige, mentre penso. Penso a chi sono ora, a dove sono, a cosa voglio fare della mia vita. Quante storie sono ormai passato per me. Quanto tempo è trascorso per me. È come se avessi appena finito di chiudere la porta di una lunga stanza attraversata, un corridoio che mi ha fatto attraversare tantissimi spazi, ognuno con arredi diversi ed ospiti che ho conosciuto nel tempo. Ognuno di loro ho abbandonato, ognuno di loro ho perso nel tempo, vagando, passeggiando con una sporta in spalla per questi anni. Ho aperto e chiuso porte d’ogni genere, lungo quel corridoio che rimaneva per me l’unico tratto comune, sicuro, come un corrimano a cui aggrapparsi quando si sta per cadere sulle scale. Una sicurezza. Un luogo dove tirare il sospiro ogni volta che una stanza si chiudeva alle mie spalle, con tutto e tutti i suoi contenuti. Sì, io li respirava quando stavo male, e sospirato sorridendo quando stavo bene, per poi riprendere il passo verso le prossime stanze, le prossime curve, le prossime avventure intermedie lungo quella strada.
Ora però l’ho finito. Sono arrivato al capolinea, dove il corridoio finisce. Una porta in legno massiccio, annerita dal tempo e dalla cera, la chiudeva. Non l’ho aperta con tanto indugio, no. Quando ci si trova davanti ad una cosa tanto paurosa, la si può affrontare in due modi: guardandola in tutta la sua possenza, accettandone la sua magnitudine e tremando innanzi a lei, oppure mettendo da parte la razionalità ed abbassando lo sguardo, spegnendo per un istante la propria coscienza e tuffandosi ad occhi chiusi lì dentro, senza pensarci, in apnea. Non penso ci sia un metodo più maturo di un altro, uno più giusto, uno più tattico. So solo che io ho preso una grande boccata d’aria, ho trattenuto il respiro e mi sono tuffato. Si. Solo che ora, a distanza di due mesi, devo ormai tornare su per prendere fiato.
E così torno su. Riapro gli occhi, ancora timidamente, ancora a fatica, con l’acqua che brucia e sfoca la scena che mi si presenta. Il corridoio è ormai alle mie spalle, la sua grande porta lignea l’ha richiuso dietro di me. Non c’è una maniglia per riaprirla: sono chiuso fuori. Ma fuori dove? Ancora non vedo, tutto è confuso, e mentre muovo i primi passi da quella porta, inizio a cogliere le prime novità.
Ancora non vedo, annebbiato dalle luci, ma colgo la loro naturevolezza. Il profumo degli aghi di pino accarezza le mie narici, ed i piedi poggiano su un terreno friabile: no, non sono più al chiuso. Sono uscito non solo da un corridoio, ma… Da un edificio. Arretro un po’, allungando le mani per ritrovare il legno di quella porta che ho appena abbandonato, ma non la trovo. Tasto ancora, lasciando che le mie dita scorrano agili sulla superficie del muro, ma questo continua senza mai interrompersi sotto di loro. La porta è sparita. Una parete antica, un muro di sassi e calce l’ha sostituita, spigoloso come quello delle malghe di montagna, eredi pluricentenarie di generazioni di uomini, animali e spiriti del focolare. Cerco ancora, agitato, con fremiti d’ansia che salgono prepotenti sotto il mio collo, strozzandolo, mentre il respiro accelera facendosi più corto, le mani ormai si fanno graffiare dalla spigolosità di quei blocchi calcarei scavati e spezzati dal tempo, li sento tagliarmi, la loro polvere si deposita sulla mia pelle tesa dalla frenesia dei miei gesti, ma nulla, niente, non c’è più alcunché lì dietro! Dio, non trovo quella porta. Quella porta non c’è più! No, non c’è proprio più! L’agitazione che ormai ha afferrato ogni parte del mio corpo mi piega le gambe. Crollo, accasciandomi su quella ruvida parete, cercando di recuperare la calma. E mentre ansimo, teso e attraversato dai fremiti che piano piano la mia razionalità inizia a dominare, la vista a poco a poco ritorna.
Sono fuori.
10.24