Sabato 5 Dicembre 2015, ore 23:10
Finalmente un po’ di tempo per scrivere, e per riflettere in compagnia della mia morbida tastiera. Ma noi, quanto siamo animali? Quanto, per meglio dire, il nostro essere risente di istinti primordiali, di bisogni essenziali -assolutamente non razionali- per sopravvivere? In questo ultimo periodo ci ho riflettuto, sia vivendo sulla mia pelle fenomeni che non hanno altra spiegazione se non quella riconducibile alla nostra essenza materiale ed animale, che vedendo un film, all’apparenza banale, che ha acceso alcune lampadine nella mia mente sensibile ed irrequieta: Fight Club.
E’ un periodo difficile per la mia psiche, messa sotto stress sotto vari aspetti: da una parte essa è impegnata nello studio senza tregua, in un disperato -e spero non vano- tentativo di colmare le immense lacune scientifiche che cinque anni di Liceo Classico mi hanno lasciato, dall’altra la sensazione di impotenza innanzi a tali divari conoscitivi rispetto ai miei colleghi, che con ben altri bagagli culturali non hanno le mie difficoltà, e con un minimo sforzo riescono a raggiungere i migliori risultati: loro con poche bracciate raggiungono la riva, mentre io annaspo convulsamente nel tentativo di rimanere a galla. Una sensazione prevale, prorompendo vigorosamente sopra ogni altra: l’umiliazione. Eh sì, perchè è umiliante, e non poco, vedere chi nuota agilmente senza difficoltà, pur non avendo fisici particolarmente diversi dal proprio, ma conoscendo molto bene la tecnica e lo stile ideale: è l’ignoranza la più malvagia fra i nostri secondini, quella che ci deride con la maggior efficacia possibile, e on è facile, per nulla, mantenere i nervi saldi. Ma come mai, perchè è così difficile proseguire verso il cammino che la ragione indica? Perchè, pur essendo consci del fatto che non ha senso soffrire per insuccessi più che giustificabili, avendo la certezza di aver fatto davvero tutto ciò che era nelle nostre possibilità, noi soffriamo di questo? E sopratutto, perchè non riusciamo a dominare la nostra mente, riuscendo a spingere la sua capacità di apprendimento solo fino ad un determinato limite di ore giornaliere, oltre le quali risulta impossibile per il nostro fisico proseguire?
In Fight Club il personaggio soffre proprio di questo, dell’incapacità di gestire il proprio corpo, ovverosia il proprio lato animale: non riesce a legarlo ad uno stretto guinzaglio e a fargli percorrere la strada che la mente vuole, bensì viene letteralmente sopraffatto da esso, trascinato via dal suo essere bestia, una belva grossa e muscolosa, potente ed agile, capace di trascinare la mente oltre qualsiasi asperità se stuzzicata, impaurita o infuriata. Ebbene sì, siamo dei banali personaggi di una commedia che portano a spasso una tigre, legata al guinzaglio: quando a questa viene voglia di cambiar strada, ben poco possiamo fare se non cercare di seguirla senza farci trascinare di forza: noi siamo una mente perennemente succube di un corpo che non risponde in nessun modo, se non in minima parte, alla nostra volontà. Tralasciando l’esempio del sentimento amoroso, di cui sono certo questo blog sia stracolmo sia direttamente che indirettamente, vorrei incentrarmi sulla riflessione riguardo le emozioni ed il lavoro mentale, come lo studio, che sono -anche se apparentemente non sembra- strettamente e terribilmente legati. Non parlo solo del fatto che, dopo diversi giorni di solo, unico ed ininterrotto studio , cominciamo a sentirci male, rendiamo molto meno di quanto rendavamo pochi giorni prima, siamo stufi e nervosi, anzi nervosissimi, molto suscettibili alle provocazioni ed infinitamente irritabili: non basta il risposo, anzi! Quel che cerchiamo è una valvola di sfogo, nella maggior parte dei casi sportiva, fisica, meccanica: correre, nuotare, scaripinare, pedalare… come bestie impazzite, dobbiamo consumare la nostra rabbia prima di riuscire a rimetterci sul banco di studio. A pensarci bene, potremmo paragonare la situazione ad una bilancia a due piatti, dove da una parte vi sia il lavoro intellettuale, e dall’altra il lavoro animale: l’equilibrio deve permanere, all’aumentare dell’uno urge una compensazione dell’altro, quasi vi fossero delle vere e proprie leggi che ce lo impongono, che ci limitano allo sbilanciamento. Ma perchè? Potrebbe essere un involontario sistema di protezione, che ci impedisce di distaccarci troppo dalla nostra essenza umana, e ci obbliga a rimanere enro i nostri limiti, quelli di esseri senzienti sì, ma in carne ed ossa. D’altr onde, se penso ai peripatetici la loro tecnica acquista di colpo un significato molto più denso e ragionato, forse già duemilatrecento anni fa l’uomo aveva capito che la convivenza con il proprio essere animale era inevitabile, e non aggirabile in nessuna maniera se non nell’assecondarlo! Allora facciamo così anche noi, assecondiamo il nostro essere animale accettando senza troppe domande questa nostra doppia essenza: chiamiamola come desideriamo, sia essa “umanità mancata” o “bestialità evoluta” a seconda dei gusti, ma poniamo questa premessa e proseguiamo.
Dunque, conviviamo con l’essere animali, va bene. Ma allora perchè ne soffriamo tanto? Perchè, pur consci di aver fatto tutto ciò che era nelle nostre possibilità, soffiamo nel vedere chi sa nuotare meglio di noi? Non è facile trovare risposte razionali, se non forse azzardando risposte animali. Forse, in quanto animali, noi ricerchiamo il primato sui nostri concorrenti, sui nostri simili che ci rubano il cibo, ci occupano il terreno di caccia, conquistano le nostre femmine, ci escludono dal clan: noi dobbiamo essere a capo del clan, noi dobbiamo avere la certezza di essere, se non i primi, i secondi a mangiare la carne ancora calda della gazzella appena catturata, non possiamo accontentarci delle ossa, o moriremo. Per questo stiamo male quando ci toccano le ossa, anche se abbiamo fatto davvero di tutto per conquistare la carne buona: noi ci rendiamo conto di essere impotenti, e quindi difettosi, fallati, privi delle capacità che altri possiedono, che altri membri del clan hanno avuto la fortuna di ricevere da madre Natura, quando noi invece ne siamo stati privati, puniti per un crimine mai commesso, accecati come Tiresia per una colpa involontaria, e destinati alla sofferenza perpetua ed alla menomazione sempiterna (?). Eppure non sarà sempre così, eppure non siamo destinati all’emarginazione infinita: noi avremo sempre, in ogni occasione , la possibilità di (ri)prenderci il ruolo che desideriamo, facendoci valere, con il duro lavoro, e raggiungendo la testa del clan, mangiando la carne assieme ai migliori, quelli come noi, per lo meno come noi desideriamo essere. Solo questa pare la spiegazione plausibile, l’unica risposta che, per ora, riusciamo darci davanti a domande che si alzano come catene montuose, sbarrandoci la strada verso il Sapere. Anche perchè noi, prima di quel momento, non avremo mai la certezza di poter raggiungere la cima della montagna, e sarà più la paura di rotolare a valle che la speranza di conquistarne la vetta.
Ora che abbiamo fatto ordine, o meglio che ci siamo illusi di un qualche ordine inscenato nella nostra mente, uno spettacolino da balera che ci illuda di capire qualcosa di più, ebbene noi ci accorgiamo, babbei, che non siamo nulla di speciale. Non siamo chissà quali esseri superiori se confrontati alle bestie , non abbiamo nessuna particolare dote, neppure quella della ragione: anch’essa infatti è ben confinata nel reconto dell’essere animale, una parentesi di regole matematiche all’interno della massa nervosa di una pericolosa fiera. Regole matematiche che nella stragrande maggiornanza dei casi vengono utilizzate per fini egoistici e bassi, direttamente o indirettamente che sia: siamo noi che dobbiamo mangiare la carne buona, noi che dobbiamo raggiungere la riva con poche bracciate, noi che dobbiamo possedere le femmine del branco, noi che dobbiamo controllare il terriorio, noi che dobbiamo compiere la nostra missione biologica. Non contano i mezzi, conta il risultato finale, unicamente.
Per questo, allora, soffriamo?
Ho paura ad azzardare la risposta. Anche perchè sono domande, dubbi, constatazioni che giorno dopo giorno incontriamo, man mano che il tempo scorre, che le foglie cadono e ricrescono, sciarpa dopo sciarpa, costume dopo costume, lungo il tragitto infinito che abbiamo appena iniziato e che permette un unico senso di marcia, tragicamente o magicamente che sia.
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