Giovedì 26.11.2015, ore 00:44
CI MASCHERIAMO IN CIÒ CHE CREDIAMO DI ESSERE
eh sì, perchè fresco fresco di teatro, dopo aver visto l’ Enrico IV di Pirandello, ecco che subito mille idee mi son balzate in testa mentre ripercorrevo freddi e desolati viali verso casa. Il tutto, come sempre, da una briciola di spettacolo, una manciata di secondi in un mare di due ore e mezza, una frase per molti banale, ma che in te, e solo in te ha fatto scoccare una scintilla, ha fatto nascere l’idea. Ci mascheriamo in ciò che crediamo di essere, ovvero noi, noi esseri sociali, immergendoci ogni mattina nel nostro humus vitale fatto di parenti, amici, conoscenti, colleghi e sconosciuti, indossiamo diverse maschere: un vestito, un sorriso, una battuta, una frase, un gesto che non è, mai, casuale, bensì inserito all’interno di un preciso registro di codici e regole, un complesso ingranaggio che, con la presenza di molteplici ed infiniti componenti, produce la riproduzione verso l’esterno di ciò che noi desideriamo essere. Una sciarpa rossa per darci un tono, occhialetti tondi per comunicare le nostre ridicole velleità intellettuali, capelli lunghi da hippie mancato, il tutto attentamente condito con qualche battuto, una risata nel momento giusto, la fase ad effetto quando si presenta l’occasione, il gesto gentile e quello scortese, il passo ed il ritmo di camminata, il tono di voce e l’accento variabile nel colorare le frasi relativamente al nostro interlocutore, con i silenzi enigmatici, gli sguardi misteriosi, la falsa, falsissima, nauseante modestia a cui davvero nessuno potrebbe credere. Maschere, costumi indossati per costruirci un ruolo nella scena, un personaggio da incarnare con un copione da seguire. Perchè dunque?
Di nuovo Pirandello ci risponde, ridendo di noi che siamo costretti a tali acrobazie caratteriali per non cadere nel vuoto del dubbio e dell’ambiguità, del silenzio dopo le domande, del terrore angoscioso generato dall’assenza di appigli, nel vuoto più totale della vita: Enrico IV l’ha capito, ed ha rifiutato di gettarsi nell’incertezza della vita, scegliendo la certezza, la sicurezza, la nettezza di una storia già scritta, e non da scrivere, il cui futuro già noto e le cui fasi documentate nei minimi dettagli adagiano il suo spirito su un morbido letto, coccolandolo e tranquillizzandolo, rilassando la mente ed ibernandola nella magica illusione della vita passata. Un’immagine, questa, spaventosa, ma che ci mette davanti al naso, senza possibilità di non guardarla, la realtà terribile della nostra esistenza artificiale, priva di qualsiasi personalità, ma formata da pacchetti prefabbricati di “caratteri” da applicare a piacimento su se stessi, quasi fossimo automi schiavi del nulla che siamo. E’ questa la realtà? Essere il non essere, mettere in scena mille e mille volte delle parti già scritte dalla nascita alla morte, come marionette. Per Pirandello si, tanto che mette questo discorso in bocca a Tito, il quale demolisce le illusioni della giovane figlia quando sentenzia che “la vita del giovane non è che la riproduzione degli stessi errori, le stesse fantasie, gli stessi successi e gli stessi desideri di chi lo precedette”; per noi allora… una difficile possibilità che comunque non possiamo ignorare. Il disegno costruito ora, ovverosia quello di un’esistenza anonima, costruita sul palco di un teatro raccattando i soliti, consumati costumi (“sono sempre gli stessi i personaggi che Enrico IV incontra durante le sue visite”, ci dice una guardia durante le prime scene) assume dimensioni psicologiche imponentissime se applicato alla sua naturale conseguenza -anch’essa esplicata in un dialogo del dramma-: ma dunque, noi recitiamo secondo il copione che vorremmo gli altri leggessero, il che non vuol dire che sia effettivamente ciò che chi ci circonda legga! In poche parole, come siamo visti dagli altri? Ovviamente secondo altrettanti caratteri prefabbricati, pacchetti di stereotipi e convinzioni applicati alla nostra persona in base alla lettura che (caso per caso!) viene fatta del nostro essere, o meglio del nostro recitar d’essere. La cosa è inquietante, anzi senza mezzi termini terrorizzante se applicata alla nostra comune vita: come siamo visti? Cosa pensano realmente di noi le persone che vediamo tutti i giorni, come ci leggono, come siamo schedati e codificati? No, non è in questo caso la curiosità a prevalere innanzi a questi interrogativi, ma la paura, la tenacissima paura immortale della solitudine perpetua: una paura, un sentimento istintivo che come tale non può quasi per niente essere controllato, ma che rapido sale dallo stomaco mentre scriviamo a ruota libera queste righe convulse, e come un bolo indigesto s’avvicina alla gola, bloccandola e terrorizzandoci con le sue tanto rapide quanto apparentemente inconfutabili conclusioni: l’esser nulla, se non ammasso di carne scimmiottante stereotipi prefabbricati al fine di non essere solo, ma di rimanere dentro il clan, il gruppo, il branco di umani, per non morire di stenti e soprattutto per portare a termine la missione biologica della riproduzione.
Sono, queste, riflessioni vaste, le quali nonostante nascano da una frase, un gesto, un sorriso, una banalità qualunque, sprigionano propulsivamente conclusioni che toccano tutti i campi dello scibile, dalla psicologia alla storia antica, dal teatro greco alla biologia fino alla medicina e la religione: tutte, queste, parti del nostro IO, un mistero da risolvere che forse mai risolveremo, e che per questo, probabilmente, ci stimola e ci stimolerà all’infinito nella ricerca di una risposta. Quante domande, quanti dubbi, e paure ed ansie, e gioie e felicità, e sentimenti forti, fortissimi, sensazioni di piacere e calore, e visioni di futuro felice e splendente, che però si scontrano con altrettante visioni apocalittiche di solitudine e grigiore, tristezza e fallimento nella propria missione: tutto rappresentato come un minestrone buonissimo, il più buono mai esistito, ma i cui ingradienti restano sconosciuti: noi, dalla notte dei tempi, lottiamo con tutti noi stessi nella ricerca di questi, ancora non li abbiamo trovati e probabilmente non è destino che li troviamo: forse è questa, la ricerca della ricetta, la spinta propulsiva della nostra vita.
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