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Trentasettesimo post

Venerdì 28 Settembre 2018, ore 6:42

Parte sul treno mattutino questo scritto, che spero di riuscire a concludere prima di arrivare a destinazione. Ci sono due cose che mi frullano per la testa ultimamente, e delle quali sento per l’ennesima volta il bisogno di scrivere, ricelebrando questo rito che ormai mi accomoagna dal lontano 2014.
Scrivo inanzitutto perchè un’altra estate se nè andata, affogata dallo studio e dal quasi nullo tempo libero che sono riuscito a ritagliarmi. Un’estate, per l’ennesima volta, vissuta rinciuso tra muri e finestre, senza godermi la liberà del sole estivo, autoimponendomi la disciplina per preparare gli ultimi esami. Una fatica, oltre che fisica, soprattutto psicologica: non è stato facile gestire e reggere le mie ansie, lo studio intenso, la paura di non farcela e quel senso di smattimento davanti al tempo che scorre ma, soprattutto, alle forze che si esauriscono senza poterci far niente. Trovarsi a dover battagliare per imparare gli ultimi concetti, con il fisico che dice “NO” con la sua inappetenza, e la psiche che si contorceva facendomi svegliare con l’ansia addosso, con il panico e le paure ingigantite all’ennesima potenza. Non è stato facile, ma ormai ce l’ho quasi fatta: è questa la frase che voi lettori inesistenti vi starete aspettando. Invece no, perchè la frase che vi voglio regalare è un’altra: a che prezzo?
A che prezzo ho conquistato ormai questi tre anni di studi e di esami? A che prezzo ho raggiunto questo (primo) traguardo di studi? Ad un prezzo alto. Alto perchè ho pagato il mio autoisolamento di anni fa (cfr post precedenti) che mi ha fatto toccare con mano la solitudine più assoluta. Alto perchè sono stato male ed ho fatto tanta fatica per raggiungere ogni singolo voto registrato, studiando sempre e comunque tre volte tanto quel che studiavano gli altri. E’ stata dura, molto dura, e dolorosa questa LT. Ho sofferto la perdita di contatti, di interessi, anche delle relzioni amorose con una persona. Mi sono privato di molto, come se avessi afferrato una scure e ad ogni anno avessi tagliato una parte del mio corpo: inizialmente, per il primo anno, ho dovuto tagliare entrambe le mie gambe, rendendomi impossibilitato dal camminare (o scappare) lontano da quel mondo; ho poi tagliato qualche dito della mano al secondo anno, e le orecchie, per non sentire le sirene che mi chiamavano lontano dallo studio e per non poter più indicare chi, diversamente da me, riusciva a condurre una vita equilibrata -e da me invidiata- ;ho infine tolto un occhio, per non vedere più così distintamente quanto era lunga e tortuosa la strada che mi separava, in quest’ultimo anno, dal traguardo. Arrivo oggi, ormai vicino alla linea d’arrivo, completamente mutilato: non sono più quello di prima, ma soprattutto sono diventato per diversi aspetti di me stesso uno storpio orripilante. Chi mai mi vorrà più in sua compagnia? Solo il futuro potrà dirmelo, io penso che in ogni caso, qualunque sia il giudizio finale che si potrà dare a questi sforzi, il dato oggettivo ed ineluttabile sarà quello riguardo la loro entità. Mastodontica.

Passo poi, con un po’ di confusione interiore, al secondo punto della mia giornata. Vedo oggi, sperimentandolo sulla mia pelle, cosa ha significato e cosa significa tuttora tutto ciò che ho fatto negli anni a chi mi circonda. Io sono una persona libera, sono un ragazzo che nella vita compie le sue scelte senza dover (ma soprattutto, senza voler) chiedere il permesso a nessuno. Sono un autonomo dell’esistente, mi reggo sulle mie gambe e cammino verso i miei obiettivi senza dovermi mai aggrappare ad un traino, o appoggiare a qualcosa o qualcuno per prendere fiato. Senza mai chiedere indicazioni per il percorso che voglio fare. Questa è la mia libertà, la libertà che mi ha reso intraprendente e creativo, che mi vuole far agire, che mi agita interiormente alimentando il fuoco della rivolta e dell’indignazione verso le ingiustizie e verso la violenza verso i deboli. La libertà alla quale cercherò di non rinunciare mai.
Parlo però di questa libertà perchè mi rendo conto, oggi, di come questa risulti un’arma a doppio taglio. La mia libertà, la capacità di scegliere della mia vita senza farmi influenzare, senza mai dipendere davvero da qualcosa o qualcuno per le mie scelte, è una rosa irta di spine: c’è chi la ammira ed a momenti vorrebbe coglierla, ma essa è pungente ed insidiosa. E’ una libertà che si lascia ammirare, ma non domare. Entrando nello specifico, ho capito che il mio modo di comportarmi, di agire e di “essere libero” è stata una lama affilata per le persone che mi volevano e mi vogliono bene. Una lama affilata perchè le mie scelte e i miei comportamenti liberi -come l’isolarsi per lo studio, ma anche per altro, il rifiutare la compagnia di qualcuno o il suo invito, ecc…- sono stati vissuti come ferite da chi li ha ricevuti. Come dolori ed incomprensioni, come dei fili che si spezzano. Fili che si spezzano, sì, perchè le relazioni sono questo: essere “legati a qualcuno” non è forse l’immagine più efficace per comprendere come il “legame” affettivo sia qualcosa che vincola, che stringe, come un filo che parte dal nostro ombelico e va verso quello degli altri. Un legame che ci permette di connettere i nostri sentimenti, che ci concede di provare emozioni assieme, di connetterci empaticamente all’altro e di condividere con lui gioie e sofferenze, come lo sono negli esempi dei testi di Fisica 2 due sfere cariche collegate da un filo conduttore. Ecco, essere liberi significa spezzare e staccare questi fili ogni qual volta manifestiamo la nostra libertà. Spezzare e scollegare noi dagli altri, e ricollegare quando lo desideriamo: ecco la libertà. Libertà, sì, che va a braccetto con la solitudine come si potrà ben capire. Ma libertà -ed è questo quello su cui voglio focalizzarmi- che nel suo manifestarsi, e nel suo scollegarsi dagli altri, li ferisce. Perchè gli altri, siano essi liberi o meno come me, soffrono di questo scollegamento: si chiedono “perchè?” senza trovarne una ragione, si sentono esclusi e scartati, rifiutati e gettati come carta straccia, come un sasso nella scarpa. Si sentono male perchè la loro sensazione, il loro sentire, la loro stretta allo stomaco dovuta a quel legame che viene rotto bruscamente (o brutalmente?) è quella dell'”essere inutili”, dell'”essere insignificanti”. Forse è proprio così che ho perso qualcuno, senza rendermi conto del male che facevo con i miei comportamenti, senza pensare che la mia libertà ed il suo manifestarsi, forse, poteva essere giustificata, preavvisata, senza render troppo dolorose queste rotture. Il dire “non ci sono oggi perchè…” anzichè dire “non ci sono oggi.”, lo scrivere “non mi sentirete per un po’ perchè…” anzichè scomparire nel nulla senza dare spiegazioni, insomma il riuscire a trovare la sensibilità per pensare
“come si sentiranno quelli che stanno all’altro capo del filo che ci lega?”
A me questa sensibilità è mancata, per molto tempo. Mi è mancata ed ho scontato la solitudine che questa ha generato in me, ma soprattutto non ho mai scontato -e mi dispiace- il dolore che ho fatto agli altri. Quello, quel dolore, io non l’ho mai capito e mai nemmeno immaginato fino a poco tempo fa, quando l’ho finalmente vissuto pure io. Ho vissuto il mio essere libero sperimentando sulla mia pelle la libertà di un’altra persona (N) che con il suo manifestarsi, mi ha fatto male. Mi ha fatto male ma, al di là del dolore, mi ha fatto riflettere su ciò che significa essere come me, mi ha fatto capire cosa vuol dire far subire agli altri tutto questo, e cosa significa non limitarsi e non “giustificarsi”. Mi ha fatto capire insomma quanto possa essere importante “pensare un po’ anche agli altri” prima di agire, prima di staccarmi e riattaccarmi, prima di far del male agli altri. Si può fare a meno di infliggere dolore agli altri? Non lo so. Si può arginare ed un po’ limitare? Penso di sì, o almeno lo spero. Ora, per lo meno, so come e perchè devo provare a farlo.

07:41 (giusti per l’arrivo)