10:30 di Domenica 04.05.2014
Scrivo perchè mi piace scrivere e dire al mondo, cioè a nessuno, che sono un essere pensante. Parlare ad un vuoto di densa nebbia grigiastra, con lontane ombre che veloci scorrono attorno a me e sfuggono in un mare di incomprensibile nulla: questa è la rete. Questo vuol dire scrivere un blog: non è nulla. E’ il sogno della comunicazione impossibile ad immaginari lettori di un misterioso universo attento a ciò che interessa, ma fondamentalmente spinto da una sola forza generatrice: la noia. Si naviga in rete per noia, in cerca di qualcosa che spinga le nostre stanche anime a compiere un guizzo veloce e dimostrare prima di tutto a noi stessi, e poi a chi ci circonda, che siamo vivi. Pallido sogno di vitalità, in realtà è solo una delle tante esperessioni della nostra più squallida qualità umana: l’ipocrisia. Ipocrisia del vivere, del relazionarci, del credere che adattandoci agli schemi comuni, ad uno standard impostoci da noi stessi, possiamo trovare felicità: massì, danziamo tutti, ebbri del nostro nulla!
Questo è il vero contratto sociale. Io mi omogenizzo alla comunità adottando gli stereotipi che essa ha scelto come paletti per il vivere: anc’io sono parte della comunità, ed in minima parte, anch’io ho contribuito alla formazione di ciò. Una compagine gelatinosa di omini tutti appiccicati che, come uno si muove, poi tutti gli altri lo seguono rimbalzando.
Un blob
Che dire, che fare, che posso scrivere? Mah, e poi perchè scrivere? Non ha senso, è solo frutto della mia infinita superbia quel che sto facendo. Ma alla fin fine, io sono così, pure superbo, e quindi me ne dobbiate scusare la veemenza con la quale esprimo questo mio carattere, ma temo ci vorrà tempo per cambiarlo, molto tempo. Una cosa però è certa, cambierà.
Ecco, questa cosa mi stringe l’animo quando ci penso: il modo nel quale nessuno in questo blob uniformato trovi mai la minima scintilla di coraggio per dire “me ne dissocio”. E’ la fobia della solitudine, il terrore che tutto il nostro castello di piani per il futuro (castelli in aria che ci illudiamo di poter avverare), gli amici (compagni di sventura a noi estranei, ma che nella nostra folle illusione consideriamo come bastoni a cui appoggiarsi) e gli amori (palliso ammasso di sentimenti multicolore che pretendiamo con presunzione di comprendere, ma che rimarrano sempre mistero) possano scomparire nel nulla. Incapacità di trovare il coraggio, quell’antica dote tramandata di generazione in generazione, per camminare avanti invece che stendersi a terra arrendevolmente e dire “resto qui, si sta bene”. La comunità è la più grande sicurezza che l’uomo possa trovare, lo è stato da sempre eda sempre la più grande fobia era quella di perderla: il terrore di Edipo che in un giorno si lascia scivolare via tutto ciò che ha è emblematico. Ed egli perde tutto, alla fine, per sua volontà: per il suo desiderio di sapere la verità. La colpa del desiderio di sapere, perchè il voler conoscere, e capire, è punito nella comunità. Perchè quando si capisce si trovano le incoerenze, le ingiustizie, le falsità, il disgusto dell’ipocrisia. Quando si capisce si diventa diversi, perchè non si vuole più fare parte del clan, della tribù, di quell’orgia di finta felicità. Si desidera il vero, con le lacrime agli occhi, e si corre disperatamente alla ricerca di chi la pensi come noi.
Ma Edipo resta solo, scacciato dalla città, cieco, accompagnato dalla sola figlia Antigone.
Lui che si accieca una volta capito tutto. Perchè? Forse per non voler più vedere, per non dover più soffrire, perchè non bastavano più le lacrime, doveva essere sangue a sgorgare dai suoi occhi, una volta per tutte, e poi più nulla. Dolore del sapere, tristezza del rendersi conto di quale sia la realtà, e da quel momento, il non volersi illudere.
Mai più.