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Quarto post

Domenica 11.05.2014, ore 15:10

Una quarta noiosissima pagina di parole al vento attende di invadere questo blog del nulla, dei discorsi insulsi e vuoti, di aria , di vento che può solo spostare qualch foglia secca. Dovrei studiare, ma ovviamente la voglia è ben altra. le voglia, anzi. La voglia di abbracciare la persona che amo, e l’impossibilità di averla qui; la volgia di correre fuori a farmi un giro in bicicletta, libero dal mondo, e l’impossibilità causa impegni scolastici; la voglia di spaziare nel mare immenso della fantasia, steso sul letto ad occhi chiusi ascoltando musiche remote che mi portano lontano, naufrago felice di una civiltà scomparsa. La cosa che più mi colpisce di questo mondo è la stretta connessione che ci sia fra il nostro mondo intimistico e quello sociale. Il modo in cui noi possiamo, contemporaneamente, vedere lontano, spaziando lo sguardo verso la società, l’economia, la politica, il futuro non nostro ma dell’intera umanità, e vedere vicino, ai nostri amici, ai nostri amori, alle piccole, minuscole cose della vita che ci colpiscono in egual modo.
Trovo che ciò sia tragicamente straordinario.
Come facciamo a venire colpiti allo stesso modo da una notizia di un’attentato e da un litigio con la morosa? Come possiamo preoccuparci egualmente di un genocidio compiuto pochi chilomentri da noi e di un litigio con un nostro amico? E come possiamo gioire egualmente di un successo elettorale come di una bella giornata passata assieme ad una persona della nostra vita? Noi, uomini, siamo l’unica razza di esseri viventi che riesce realmente a far coesistere, oltre all’universo familiare, anche quello sociale. Siamo i soli esseri viventi che ci identifichiamo in un’entitò di persone che nemmeno conosciamo e mai conosceremo, diverse da noi per milioni di aspetti, ma che ci appaiono sempre e comunque vicine e parte di noi stessi (a dispetto di tutti i sentimenti preistorico-razzisti che in parte ci portianmo dietro dal nostro passato animale). Quel che mi sconvolge è il coesistere, perfettamente equo, di questo: esso è il coesistere delle nostre due parti dell’animo, l’istinto e la ragione.
Istinto, passione, pathos, carica emotiva, inesplicabile gioia e dolore mischiati assieme a formare un groppo sotto al collo che può significare infinito piacere come infinito dolore. Un’ammassarsi informe di colori che decidono istante per istante come mescolarsi, creando poesie di luce come vivide immagini infernali: è l’irrazionalità di cui siamo, felicmente, schiavi, retaggio del nostro passato animale ma forse, secondo me, anche elemento che ci impedisce di essere brutali macchine, insensibili esecutori del nulla, mostruosi sterminatori. La passione è ciò che ci consente di camminare, senza di essa resteremmo fermi, incapaci di trovare un ben che minimo motivo per vivere. Perchè io vivo? Per vedere la felicità nel volto delle persone, e poter dire “io servo a qualcosa”: alla fin fine è questo che siamo, è per questo che viviamo. Io vivo perchè so che un giorno, per quanto lontano possa essere, vedrò il mio Amore sorridere quando mi vede arrivare. Io vivo perchè so che con gli amici la mia sciocca simpatia, la mia sadica autoironia, il mio folle volare della fantasia alla massima velocità provocherà un sorriso sui loro volti, e tutto il male che li affrange somparirà, e leggeri rideranno di me, e leggeri cominceranno a lievitare sereni nella nebulosa del piacere. Io voglio fare il medico non perchè mi interessi, non perchè mi offra possibilità di guadagno sicuro, non perchè sia un ruolo elitario e riverito nella nostra società di anime dannate che temono la morte: voglio fare il medico perchè posso aiutare qualcuno. Voglio fare il medico per poter dire che salvo la vita a delle persone, per poter dire che la mia esistenza non è sprecata, ma è investita, è UTILE a qualcuno. Per essere utile a qualcuno, perchè essendolo troverò un motivo per vivere ancora.
Ragione, razionalità, calcolo probabilistico, visione utliltaria, pacatezza e coerenza, furbizia, inganno, obbiettivi vividi da raggiungere ad ogni costo. Ecco ciò che ci salva, o ci danna. La ragione, ciò che ci distingue da una bruta scimmia: la capacità di bloccare l’istinto, di ragionare su ciò che si sta per fare e di scegliere la strada migliore. La ragione ci impedisce di fare danni, la ragione ci permette di scalare la montagna della vita molto più velocemente ed abilmente di chiunque altro. La ragione ci permette di evitare gli errori, do soffrire di meno ma allo stesso tempo di gioire di meno. Pariamo dall’assunto di base: la ragione è la serva dell’istinto. Noi non viviamo di ragione, non siamo ancora freddi esecutori di direttive, non per ora almeno. Possiamo diventarlo, alcuni di noi lo sono già diventati, ma (per fortuna) i nostri simili Eichmannici sono una minnoranza, e lo rimarranno finchè l’istinto che ci perquote non sarà così forte e violento che il nostro inconscio deciderà di eliminarlo, quasi un’anticorpo della psiche, per farci restare automi disumani. Finchè ciò non accadrà, la ragione resterà a servizio dell’istinto, limitandolo e contenedolo in dei confini più o meno sicuri: la ragione ci impedirà di suicidarci se un grave fatto ci accoltellerà il cuore, la ragione ci rialzerà quando cadremo nella disperazione, la ragione ci farà trovare la forza di ricominciare a camminare riagguantando tutto ciò che abbiamo perso per strada, presi dall’istinto. Il problema, almeno per me, è attivarla nel momento giusto: quante cazzate ho fatto per l’istinto, quanti problemi inutili, quanti dolori, quante sofferenze per nulla! Se solo la ragione mi avesse preso per tempo, allora non sarei caduto, allora avrei capito, allora non avrei trascinato per terra con me persone che non centravano nulla! Ragione, bene effimero e talvolta traditore, che si scatena per limitare il bene ed il male, ragione che io ho lasciato a volte agire senza istinto. L’ho fatto di recente, l’ultima volta, e me ne sono pentito amaramente, tanto amaramente che sono conscio di non poter mai ripagare per il male che ho fatto,e di non poter mai ricucire la ferita che ho brutalmente aperto sul petto del mio Amore. La ragione liberà è il peggior castigatore, il peggior aguzzino, la peggior macchina di morte che possa esistere. la ragione del male è brutale, spietata, disumana, mostruosa come me, un mostro che si nasconde a fatica dietro il suo bene, ma che non è sempre contenuto: il mio male esce violento quando non riesco più a contenerlo, e si scatena, furia micidiale, su tutti senza distinzioni. Se un giorno dovessi perdere il mio istinto, se un giorno esso lasciasse definitivamente le redini della ragione che reciprocamente lo limita, mi ucciderei prima di poter fare ciò che nemmeno voglio immaginare. La mia cosciente follia esistenziale si scatena su queste righe, tanto che voi lettori, lo so per certo, vi duolerete del rendervi conto di quale bestia infernale possa io essere, ma cosa posso dire, se non dirvelo, per salvarvi? Pensate che esageri? No, mi dispiace deludervi, ma dalla mia famiglia non poteva uscire che questo: una mente spiccata (e lo dico senza volermene vantare) ma spiccata sia nel bene che nel male. Un’esagerazione, un’utopico mostro allungato ai suoi estremi, che fondamentalmente soffre del non riuscire a trovare ancora quell’equilibrio che lo renderebbe una persona normale, accettabile, un’uomo.
Nella tradizione classica il suicidio era un’atto di coraggio, era onorato nel caso in cui il protagonista, resosi conto dell’impossibilità di continuare a vivere all’interno del genos (la stirpe, la famiglia, ma più in generale la comunità), si uccide per salvare la sua dignità e la salvezza delle persone a cui vuole bene. Deianira, folle di amore per un marito che non la ama e la tradisce, cerca di farlo tornare a se con il filtro d’amore di Nesso: quel filtro è però un veleno, ed Eracle impazzisce facendo strage di Lica, il fedele amico. Deianira, che aveva usato la ragione per placare il suo istinto di intenso amore non ricambiato, impazisce per l’orrore commesso, e comprendendo l’impossibilità di poter continuare a vivere dopo ciò che ha fatto, si impicca. L’impiccaggione per la donna, e la morte gettandosi sulla spada per gli uomini: Aiace folle, una volta uscito dal suo delirio di follia (cioè di istinto) si uccide sulla spiaggia, gettandosi sulla spada. Non può sopportare, come Deianira, la consapevolezza di essersi macchiato di una colpa tanto grande, non potrà mai più guardare in faccia nessuno senza vergogna profonda, non gli sarà più possibile vivere: ecco allora che muore. Una morte per il preponderare della ragione, quella di Deianira, ed una morte per il monopolio dell’istinto su tutto il corpo, quella di Aiace. Sono passati duemilasettecento anni, ma l’uomo è sempre lo stesso, e le soluzioni che trova, le più sagge, sono sempre quelle finali ed estreme. Ciò che nessuno mai capisce e mai capirà, è che il gesto di Deianira, come quello di Aiace, è ciò che di più grande possa fare una persona per dimostrare il bene che vuole a chi ama: colpevole di amare troppo, Deianira scompare per non fare altro male alla persona a cui mai e poi mai avrebbe voluto farne. E’ la mostruosa ingiustizia del mondo, la più grande espressione di dolore ed amore che mai, in nessun altro modo, potrà essere espressa.