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Diciassettesimo post

08/10/2014, 14.12

Tornato a casa ecco la sorpresa che mi attende: il nuovo cellulare. Ordinato dal belgio, una marca cinese per spendere poco ed avere moltissimo, quasi tre settimane di attesa ed ora eccolo qua, un nuovo fiammante thl. Solo che non sono felice, anzi, ho un piccolo groppo in gola.
Nostalgia? Forse un po’. Ma è il senso di sconfitta a fare il grosso.
Ho resistito 8 anni al conformismo di questa società che deve correre, sempre e comunque, i cui tempi sono ristrettissimi, la cui comunicazione è capillare ed istantanea, con una velocità pari alla sua ipocrisia. 8 anni con un vecchio cellulare, il Sony Ericsson Z32Oi, uno scricciolo rosso che stava ovunque, che all’inizio, da bambino delle medie, ciravo maniacalmente per paura di rigarlo, e che sono passato ad usare come pallone da calcio man mano che crescevo (era, ovviamente, indistruttibile). Già l’usare il passato mi rattrista, il fatto che ormai sono le sue ultime ore di utilizzo. Mi ha accompagnato sempre ed ovunque, per comunicare con la mamma ed il papà, la nonna che chiamava sempre quando nessuno rispondeva a casa, i compagni e gli amici, le ragazze. Lo so usare a memoria, la mattina spengo la sveglia senza accorgermene, scrivo i messaggi già sapendo quando affidarmi al dizionario ridottissimo del T9 e quando comporre da solo la parola. So la rabbia del pazientare quando non ha campo (sempre), di quando attendere lunghissimi secondi la scritta “Parola non presente nel dizionario”, di quando dover cancellare tutti i messaggi perchè ci sono “Messaggi in attesa, memoria del telefono piena”. Ero (anzi, sono, ancora per poco) una specie di eremita della tecnologia, fermo nel passato, io contro tutto e tutti. Non ho mai voluto accettare la tecnologia che mi imponeva passi avanti: a facebook cedetti solo a metà della terza superiore, ora tocca al telefono, ormai la mia ultima bandiera, il mio ultimo gesto di ribellione, l’ultimo grido contro qualcosa che a me non va e che non voglio accettare. Perchè sono arrivato alla conformazione totale? Scelte obbligatorie. Per fare ciò cheamo devo stare al passo con gli altri, per stare al passo con gli altri devo correre come loro, una corsa sempre più veloce, sino al suicidio psichico. Passare avanti, aggiornarsi, creare sempre più un alter-ego sociale nella rete: ha senso tutto ciò? Per me no. Nel cambiare telefono io perdo un pezzo del mio essere Uomo, con questo strumento parlerò ancora meno di prima e mi nasconderò sempre più dietro uno schermo, una foto, una frase ben studiata prima di essere scritta. Il formale e l’informale, i due mondi in cui ogniuno di noi vive in questo cazzo di pianeta, si stanno fondendo in un unico osceno agglomerato di merda sociale, e la cosa è angosciante. Me ne rendo conto in questi momenti. Un tempo o ci si parlava, o si parlava al telefono, oppure si scriveva una lettera, ma erano due mondo distanti: dietro la scrittura della lettera vi erano tempi lunghissimi, studio delle parole, della grafia, dell’impaginazione. Se si riceveva una lettera, si sapeva che chi l’aveva scritta aveva dedicato una buona parte del Suo Tempo per te, che ti aveva fatto un grande dono: si era donato. E dietro alle sue parole c’era tutta la sua abilità e la sua intelligenza, tutta l’essenza umana di una persona si vedeva, si leggeva e si esprimeva nello studio di una lettera. Dall’altra parte, quando si incontrava una persona, per quanto la formalità potesse mascherare con il suo velo (o vello, dipende dalle quantità) di ipocrisia, non poteva nascondere l’essenza di una persona: la gestualità, il modo di parlare, le parole usate sono incontrovertibili prove dell’animo di chiunque. Come lo era parlare al telefono, sentire il tono di voce, la fretta o la calma nel parlare, nonchè tutto ciò che riguarda l’affascinante arte della parola, con i suoi tempi, i suoi accenti, il suo calore avvolgente o la sua freddezza, lama che affonda nell’animo o preziosa medicina riparatrice.
Tutto questo, lo vedo, lo sento, sta scomparendo. Scompare tutto, in un’unica mistura chiamata Chat. Tutto è nato dall’IRC, messaggistica istantanea ai tempi dell’intel 8086 e della guerra del Golfo, poi diventata di ultilizzo pubblico e mutata negli anni. Arrivò Windows Messanger nel 2001, con i primi “Amici”. E poi Skype, Facebook fino al nostro Whatsapp. Tutto verso una corsa all’immediatezza, per avere informazioni ora e subito, senza attese, in una simulazione di discorso tra due persone che non è altro che una triste caricatura delle nostre essenze. Perchè ci illudiamo che la chat ci doni il potere della sincerità, ma veniamo inevitabilmente gabbati da essa. Una chat non sarà mai un discorso diretto, ed un discorso diretto diverrà cosa rara, per poi scomparire del tutto nel futuro utopistico che la mia mente terrorizzata già prospetta: essa è espressione della finzione e dell’inganno, cardini di questa società squallida che io ripudio con la mia volontà ma nella quale ricado pesantemente, come un albero che viene tagliato, innanzi all’impossibilità di proseguire per la mia strada. Nella chat noi siamo enfatizzazione degli stereotipi che la società ci impone: li enfatizziamo, ma perchè? Per rendere più immediato il messaggio, perchè è l’immediatezza ciò che cerchiamo, il bruciare il tempo, le tappe, i limiti e i confini che Battisti sognava di distruggere ma che io vorrei mai come ora esistessero, e resistessero saldi. Perchè noi non “ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini”, noi ora siamo, contemporaneamente, lontanissimi e vicinissimi. E bruciamo i tempi. Perchè? Ci penso ed è triste. Quanto ci vuole perchè consideriamo una persona “nostro amico”? Pochi giorni di chat? E quanto ci voleva un tempo, quando la chat non esisteva se non quella vera, vocale, fisica, tastabile che si aveva solo quando si parlava davvero, guardandosi in faccia? E l’amore? Il magico “tempo del corteggiamento” è sparito: ora la virtualità è tutto, tutto rapido, immediato, ed allo stesso tempo freddo e distaccato. Se c’è qualcuno/a che ci interessa, noi ci parliamo in chat. Ma scusa, e i giochi di sguardi che c’erano prima di facebook? Le mezze parole, il cercare l’amato/a senza farsi vedere, il far intendere interesse con l’unica arma degli occhi prima di passare alle parole ed al fatidico “che fai sabato sera?”. Oggi è tutto virtualizzato, basta vedere qualche foto, chiedere l’amicizia e già si è conquistata la discussione, il “parlare” che non è parlare, e solo dopo, una volta aggirato con comodità l’ostacolo dell’imbarazzante discorso, si passa alle fasi successive. Il fascino del corteggiamento, che poi è uno (secondo me forse l’unico vero) strumento per vincere le inibizioni e la timidezza, tutto bruciato rapidamente dal trucchetto, l’asso nella manica quale è la chat. Io mi rendo conto che perdiamo giorno dopo giorno parti del nostro essere umani, parti del nostro avere un’anima, per diventare solo larvette, vermucoli che bruciano il sentimento lento, costruito, maturato come un frutto delizioso per scegliere l’immediatezza, per passare al rapido soddisfacimento dei bisogni più naturali ed animali, annientando la poesia che vi è in realtà dietro tutto. Come è possibile che in venticinque anni si sia arrivati a questo, e cosa ci aspetta allora? Mussolini -per quanto io sia infinitamente lontano dalle sue idee- incise indelebilmente sul palazzo della Civiltà Italiana all’EUR delle parole che mi sono rimaste impresse da quando le o lette, perchè in esse non v’è la retorica fascista, per quanto essa forse avesse desiderato esserci: è sola e pura verità. Le parole sono dedicate a noi Italiani: “UN POPOLO DI POETI DI ARTISTI DI EROI / DI SANTI DI PENSATORI DI SCIENZIATI / DI NAVIGATORI DI TRASMIGRATORI”. Questo siamo noi, prima di tutto: poeti, artisti ed eroi. Ma lo siamo ancora? Lo resteremo ancora? O forse questa tecnologia annienterà la nostra essenza umana, la nostra empatia, e ci riporterà ad uno stadio animale, di mere macchine lavoratrici con desideri effmeri ed immediati, non sporchi ma aridi, di un’aridità sconvolgente, di una povertà disarmante, di una schiettezza irriverente, di una disumanizzazione agghiacciante, alienante, che distrugge chi ancora crede nel mare di passioni che possono esistere dentro me, come in chiunque altro, passioni che io stesso condanno come fonte di dolori ma che allo stesso tempo esalto come unica vera essenza dell’umanità. A questo stiamo andando, la distruzione delle passioni, il soddisfacimento effimero dei bisogni.
Vivevamo sugli alberi, abbiamo imparato a camminare, ci siamo uniti, abbiamo costruito città e civiltà, abbiamo dominato il mondo e la Natura, siamo diventati egemoni di questo pianeta, verremo sopraffatti dalla Natura stessa, perderemo la nostra civiltà, dimenticheremo il piacere della passeggiata
torneremo animali.