Dodicesimo post
Undicesimo post
15.07.2014 02:24
E’ notte fonda ed io dovrei andare a dormire, ma prima devo fermare nell’indelebile memoria di un server disperso da qualche parte nel mondo questo mio pensiero.
Oggi sono andato a trovare due cari amici per me, due persone che io stimo molto, con cui condivido molti pensieri e molte esperienze, ma che per qualche strano gioco del destino o della vita vedo poco spesso. la bellezza di questa amicizia, che è la Vera Amicizia, è che possono passare mesi senza vedersi nè sentirsi, e poi ci si ritrova un giorno a caso e si riprende a chiaccherare come se niente fosse, raccontandosi di ciò che è successo il giorno prima, come se non ci si fosse mai separati. Questo per me è ciò che di più bello possa rappresentare una relazione come l’amicizia, questa è la magia che ti da l’avere persone vere che sono troppo simili a te, negli anni luce che vi separano, per poterle perdere. Perchè con loro tu ti trovi bene, con loro tu davvero non hai bisogno di fingere, cambiare, frenare te stesso o correggerti: tu con loro ti liberi, e la libertà che ti danno nel concederti di essere te stesso è qualcosa di magico, un dono incedibile se ci pensi davvero.
Solo che oggi non era un giorno come quelli.
Sono arrivato, un po’ in ritardo, e ho scoperto che quei due miei amici, che non si conoscevano nè si frequentavano, nel giro di poche settimane sono diventati grandi amici, si intendono e sembra che si conoscano da una vita: questa è la Felicità per me. Perchè io sono riuscito a far sì che due persone, che magari si sarebbero conosciute anche senza di me, proprio grazie alla mia insignificante mossa di presentarli a vicenda ora sono felici, perchè hanno trovato qualcuno come loro, ed ora sanno che quel qualcuno c’è nelle loro vite, e le riempie, in un certo senso (che sinceramente non saprei meglio spiegare). Io però sono felice: io sono felice nel vederli in intima amicizia quando li avevo lasciati che non si conoscevano, io sono felice perchè il loro sorriso si riflette nei miei occhi, io sono felice perchè, nel mio piccolo, sono riuscito a farli felici, anche solo un pochino. Io sono felice, davvero, davvero felice, e la Felicità è questa, questa soltanto, la sola che mi gonfia il cuore anche se magari sembro un pazzo a dirlo.
Solo che oggi non era un giorno come quelli.
Tutti e due sono di recente usciti da una situazione di felicità ed entrati in un tunnel buio di dolore. Io questo l’ho visto subito, nell’esatto momento in cui mi sono venuti incontro: le voci basse, lo sguardo sereno ma piegato da una profonda ruga di malinconia, lo sforzo del sole che vuole risorgere dopo la tempesta. Non so descrivere quell’emozione, ma è come quando una persona smette di piangere, e ripresasi ride di qualche battuta che gli si fa per tirarla su di morale: quei visi limpidi, lavati poco prima da dei pianti, che ora leggeri si rialzano in volo, come rondini cadute per un colpo subito, che si rialzano e riprendono il volo mentre le nuvole si scostano ed i raggi tiepidamente riappargono all’orizzonte. Quella limpidezza che è la rinascita, ma lascia ancora le ferite recenti ben visibili, ma in via di guarigione. Lo scenario alla fine è però quello di una giornata di sole, con tanti adulti che giocano nel parco e due bambini che sono caduti a terra e che, piano piano, cercano di rialzarsi da dove sono caduti. Ma non vogliono ammettere di aver sbagliato loro: stanno zitti, si puliscono dalla polvere e cominciano a tamponare le ferite, cercando di mantenere un loro orgoglio pur sapendo di avere torno, al meno un po’. E così questa gioia vera, ma temporanea, è colorata da un triste sfondo di malinconia, che si legge nella voce bassa, nei silenzi, nei sorrisi ancora frenati dal rimorso e dall’aura di estraneazione che emanano, quasi loro due vivessero su un pianeta diverso, ed io fossi un estraneo venuto a disturbare la loro essenza.
Alla fine noi siamo solo delle palle di Pongo colorate. Cerchiamo di mischiarci ad altre palle per ottenere assieme il colore del Paradiso, e quando ne troviamo una che ci sembra quella giusta, stacchiamo un pezzetto di noi stessi e la mescoliamo a lei. Poi, se il risultato ci soddisfa, ne diamo altri pezzettini e la nostra gioia aumenta nel vedere che il prodotto di quella mescolanza sembra sempre di più il colore del Paradiso.
Alla fine però, ci rendiamo conto che quel che sembrava colore del Paradiso non lo è: siamo disillusi. E quando capita, lasciamo stare quell’altra palla, smettiamo di darci pezzetti della nostra anima, e ce ne torniamo a camminare goffamente da soli, noi palline di pongo, ora più piccole, in cerca di un altro colore con cui mescolarci.
Ed ogni volta che ci mescoliamo, perdiamo nel mescolamento parti di noi stessi, e quelle parti non ce le renderà mai più nessuno. E diventiamo sempre più piccoli, ed abbiamo sempre meno Pongo da usare per mescolarci. E se non troveremo la palla giusta per noi, finirà che consumeremo tutto noi stessi, ed alla fine scompariremo con l’ultimo, estremo tentativo di mescolarci.
Esauriremo l’Amore per gli altri, e con lui anche la voglia di vivere. Una sottile seta nera ci coprirà gli occhi, e mentre un vento tiepido ci solleverà da terra, delle bianche mani di donna ci chiuderanno, dolcemente, le palpebre.
Decimo post
Giovedì 03.07.2014 (13.07.2014 01:12)
QUESTO POST E’ EGOCENTRICO
ma siccome per me alla fine questo blog è diventato un diario, lo uso come tale quando ne ho necessità. Ora che ho finito Il ritratto di Dorian Gray, capisco perchè quella ragazza che ormai stò dimenticando, ancora all’inizio di quella relazione fallimentare e fallita, mi mandò tramite un enigma il messaggio “Dorian Gray”. Ora davvero capisco perchè.
Io personifico, almeno in parte, quel personaggio ambiguo, nei suoi lati maniacalmente egoistici e viscidamente mostruosi.
Io sono Dorian Gray nella mia vanità, la vanità di un narcisista che non si manifesta nell’aspetto fisico, ma in quello intellettuale, io che mi credo alto fra gli alti, unico capace di comprendere appieno la realtà ed unico padrone indiscusso dell’unica Verità. Un dio sulla massa, un essere infinitamente superiore, tanto da non curarsi degli altri, ma che dico, anzi dallo sfruttare chi mi circonda per i miei fini, che essi siano amore, felicità o qualsiasi altra merce io desideri, perchè di merci e solo di merci si parla nel mio caso.
Io sono Dorian Gray appunto nell’usare gli altri per i miei fini, nello sfruttare chi mi circonda e mi crede una bella persona, perchè la mia maschera di atteggiamenti e comportamenti nasconde ciò che vi è dentro di me: io sono squallidamente lurido nel mio animo, ma tale squallore è nascosto, celato in un dipinto che solo pochissimi possono realmente vedere, solo la mia famiglia. Che appunto ne è disgustata. Io sono ciò, io sono questo male nascosto ma nessuno che mi conosca di striscio può immaginarlo: un’anima venduta al demonio mi permette di compiere tali perfidi giochi che mistificano, falsificano, spolverano copiosamente d’ipocrisia i miei rapporti. Ma allora che fare? Cosa sono se non ciò che di più disgustoso ci possa essere? Ciò che sono in grado di fare è frenato dalla mia volontà di salvare quel che ho guadagnato con l’inganno, ma che pi è terribilmente caro perchè al di fuori di esso c’è il vuoto. Ho costruito da me una compagnia di amici che bene o male ci sono sempre, ma cosa sarei senza? Forse apparentemente non sono nulla, ma sono moltissimo: io davvero non so cosa succederebbe se quegli appigli distaccati che mi vedono come “una brava persona che cerca di tenere unita la compagnia” scomparissere, piccole deboli mollette che mi tengono appeso al fino della vita spirituale. No, dio non esiste ma sì, l’Amicizia esiste eccome. Ed io sono padrone di una piccola fetta di questo grande dono? Io ho amici, ho persone che mi circondano? O sono solo fantocci, sagome di cartone che mi aiutano in questa dolorosa illusione che è lo strascicarsi anno dopo anno per terra, lungo questo sentiero irto di punte che è la mia sporca vita? Pensavo di non essere in grado di fare ciò che ho subito: sono stato in grado di fare di peggio negli anni, e temo che farò ancora e ancora peggio. Ma cosa può pensare chi mi conosce ora, cosa pensa di me quella ragazza? Che sono un folle, un matto che spasmodicamente nasconde la sua depressione -se così la si può chiamare- dietro a grandi risate e follie? Ma cos’è questo, vivere? No, non è certo l’alcool questo, questa è la verità che affiora gorgogliante, ed io scrivo a vuoto senza rendermene conto perchè nulla può fermare una coscienza sporca che ha bisogno di pulirsi ma sa di non poterlo fare. Ma quanto sono sporco? Quanto sono sporco?? Questa ipocrisia che pervade l’anima! Io la odio, ed io mi odio! Cos’è questo? Cos’è, è solo quel che vorrei sapere. Cos’è. Non è vivere. Non si vive nella finzione continua, no. Eppure chi mi conosce davvero mi ama nonostante tutto, e nonostante tutto mi stima, non pensa che sia maligno, perchè allora mi nascondo? Cosa sono queste inutili finzioni che invece mi rimangono indispensabili? io sono malvagio? Sì, il pizzo rappresenta quello. Io godo nel fare male a chi se lo merita, godo nel far soffrire profondamente chi mi ha fatto del male e chi ha fatto del male a chi amo. Ma allora io amo, perchè sono così grigio dentro? Non ho coraggio. Io non ho il coraggio di mostrarmi per quel che sono, non sono capace di soffrire i rifiuti, le umiliazioni, l’esclusione. No, non ne sono capace, ho come un anticorpo psicologico che mi allontana dal male, e sapendo che la verità fa male sono inconsciamente portato a fuggirla. Sì, inconsciamente perdio! Io non voglio esserefalso ma lo sono, e la mia falsità è giunta a livelli assurdi, livelli immaginifici e fantastici che mi portano solo al disgusto di me stesso: io che odio la menzogna sono colui il quale ne fa più largo uso. Ma perchè? Perchè questa falsità? Io devo trovare il coraggio di essere schifato dal mondo e di vivere solo, ma onesto, invece che immergermi in questo gelatinoso falso amore di una società dell’apparenza. Se sono potessi distruggere l’incantesimo che mi incatena a questa situazione, se solo mi avvessero potuto conoscere per ciò che sono davvero! Io sono ciò che desidero, e se desidero essere ciò che la società vuole, lo divengo, ma no, non dovrei essere così. Fa male l’ipocrisia, e fa male il rendermi conto che la compagnia non esiste, che io sì, sto creando l’amicizia, ma fra gli altri. Oggi, tornato a casa, ero felice, perchè ho avuto la forte sensazione, stasera, che la compagnia che un tempo non esisteva ora è forte, è forte più che mai! Loro prima non si frequentavano, ed ora lo fanno anche senza di me, e sono felici di avere un gruppo, una famiglia fuori da casa loro con cui trovarsi, ridere, scherzare e divertirsi piangendo di gioia le lacrime dell’innocenza, dimenticando quanto fa male vivere sapendo già cosa ti attende e non volendo illudersi! Io ho fatto questo, io li ho creati ed io ho dato lorto gioia: loro non sono più soli, o almeno una parte di loro che prima lo era, adesso non o è più. E questa compagnia che prima non funzionava, adesso funziona, funziona alla grande ed anzi va meglio senza di me, senza questo sporco leader che si impone, che ogni sera chiama tutti e si impegna con tutto se stesso per far uscire dalle case chi non ne ha voglia, travolto dalla rassegnazione, e da a lui speranza ed un sorriso che è il regalo più bello ogni volta. Io ho creato tutto ciò ed io sono orgoglioso di aver fatto un po’ di luce nel tetro nero pesto della mia vita umida e putrefatta. No, questa è l’unica luce. Io voglio altre luci, vorrei ridare amore vero alla mia vita, quella luce rosso fuoco che scalda le giornate, che cancella il resto NO! Io Voglio un tiepido affetto, tutto qui. Non voglio innamorarmi, non avrei dovuto farlo ed infatti l’innamorarmi è stata la mia rovina. Non bisogna innamorarsi, bisogna che una amicizia divenga una grandissima e fortissima amicizia, indistruttibile, e che tale divenga amore, non la passione no! La passione è troppo pericolosa per me, e per tutti, è solo dolore, perchè la passione in me diventa macchina di distruzione. Diviene la freddezza di Dorian Gray, è ciò che taglia il filo del freno nel mio spirito, ed è male, è dolore, è distruzione pura. Oh sì, lo è, lo è eccome! No, nessuna passione, ma affetto sì, l’affetto di qualcuno che mi guardi e mi scopra davvero, che veda che sono nella realtà e mi accetti per quel che sono. Chi è passato già, una volta visto cosa sono, è fuggito via: io desidero un eroina che non mi tema. E’ troppo ciò che chiedo, lo so, ma io sarei disposto a tutto per aver un affetto sincero, davvero sincero, di chi sotto le mie risate con gli altri, sotto le buffonate, i graffiti, i deisegni, le parole, la sbruffonaggine, la stanchezza e la malinconia sporadica sappia cosa c’è. E che gli piaccia.
No, questa è follia, la mia è pura follia. “Tu ti fai troppe seghe mentali” “Tu pensi troppo” “Tu hai il brutto vizio di scrivere tutto ciò che pensi” “Sei negativo” “Polemico” “Pessimista” “Antipatico” “Cattiovo” ècco, questo è ciò che sentono le mie orecchie, ma è così allora, io sono un folle, un folle che maschera la paura del vivere sotto la finzione, un tempo magari studiata, ma oggi sfatta, un vecchio attore che ha perso tutta la sua abilità, il trucco pesante sul viso di una vecchia donna che si illude di nascondere le rughe ed il grasso con quanta più cipria possa mettere, e finisce per divenire un pagliaccio. Il troppo, ho perso l’equilibrio, io ora cado, cado nel vuoto del nulla, senza che nessuno mi freni perchè non v’è maistato nessuno. il vuoto della paura, del desiderio e dell’egoismo su cui ho basato la mia vita. Io egoista sì, alla fine sì, e vergongoso di ciò. Io che a tratti egoista e a tratti l’opposto, alla fine voglio solo che non scappiate via spaventati da me. Dio, che cosa scrivo, che cosa sono, che cosa faccio?? Questa è necessariamente follia: come ho fatto a fingere di amare, ad inventare sensazioni che non esistevano per avere un po’ di affetto? Dio, che schifo, ma almeno ho imparato dagli sbagli,ed ora infatti resterò solo, solo per non far male a nessuno, SOLO! Alla fine lo so che ci proverò, perchè ciò che voglio io me lo vado a prendere. “Tu aggredisci il mondo, Francesco, anche troppo” eh sì, lo so, io lo odio questo mondo e lo voglio dominare, per vendicarmi del male che ho subito, delle ingiustizie, perchè non accetto che no, non cambierà mai, io cambio, anche a costo di spaccarmi la testa. Se io non ci provo nemmeno a cambiare, allora tanto vale spararsi e vaffanculo a tutti. ma no, qua non è il cercare di cambiare, qua è che io lo cambio punto! E’ il delirio, ora chi leggerà questo scapperà via per sempre. ma tanto non lo legge nessuno, per fortuna hehehe hihih rido da solo, sono folle, muoio. O vivo? Vivo o muoio? Oddio, io corro rischi, se qualcuno leggerà queste righe dio! Ma sono così poche le visualizzazioni. Ma sono così pochi quelli che sanno del blog. Ma dio, se lo leggeranno io muoio. Mi stuprano l’anima. ma il punto è che io voglio farmela stuprare, almeno per una volta, una soltanto, che vedano che cosa sono. Un folle, debole, pazzo, Io sono pazzo, sì, sì, e loro lo sanno, fingono di volermi ma lo sanno che iop vivo male, lo vedono, lo sanno e lo nascondono. Nascondono. Nascondono! Ma nascondete me, gettatemi via piuttosto che accoltellarmi così! Che sono quelle poesiucole inutili quando la vita non è altro che un inferno con tanti sprazzi di paradiso che ti illuminano il cuore di luce vitale e ti fanno dimenticare il male, e fanno sì che tu creda che sia male dovuto? La vita non è paradiso, è inferno, e saremo felici quando sapremo amarlo lo stesso. Ma quanta forza ci serve per amare l’inferno! La forza di CAMBIARLO COME LO VOGLIO IO, ecco che mi serve. E il coraggio, e via questa paura di debolezze che non mi appartengono! Io non sono un debole! Io ho paura di perdere quel poco che ho cottenuto con le unghie e con i denti! Non è debolezza, è fottuta paura di morire dentro!! No. Non sono debole, e forse sarebbe meglio se lo fossi. Se fossi debole non farei male a nessuno, non essendolo io uccido gli altri se non mi controllo. Ma vedi, se volti il tuo coraggio e la tua rabbia in bene tu fai bene! Io posso fare bene dici? Si puoi farlo, come l’hai già fatto, ancora dai, la vita ha senso se per gli altri sei utile! Non sei tu che trovi un senso alla vita, sono gli altri che trovano un senso alla tua vita!! Tu sei utile se lo sei per gli altri, e loro sono il tuo motivo di vivere. Io voglio abbracciarvi tutti, e dare me stesso per voi, perchè ridiate, anche per una mia pagliacciata, per una mia buffonata, per la mia stupidità falsa ed ipocrita, per le mie gaf, per me, ridete di me, ve ne prego! Ridete e gioite, perchè io sono felice di vedere i vostri sorrisi! Io amo i vostri sorrisi, io mi scaldo non con il fuoco o il gas, ma con i vostri abbracci. Abbracci, io vivo di abbracci. Ridere grazie a me, ridete ancora e fate che io sia utile ancora per voi. Le cose che diventano inutili si buttano via, io voglio restare indispensabile, non voglio esser mai buttato via. Non fuggite, restate, sono orribile ma non mi temete! Non voglio farvi del male.
Lunedì 30.06.2014 00:27
Piccolo esperimento.
Un fresco vento notturno scuote i rami degli anziani olivi, facendo fremere di tremore la pelle scoperta che, un po’ spavaldamente, lo sfida. L’eco del bar patronale risuona lontano, accompagnato dalle grida dei suoi frequentatori mai stanchi di seguire l’ennesima partita del mondiale: un’abitudine antica che non vuole arrendersi all’epoca dello streaming digitale. In lontananza, sulla terra ferma, le luci della città di dannunziana memoria si riflettono sul calmissimo mare che disegna i fianchi di questa brulla isola dalmata, in un luccichio che porta inevitabilmente al paragone con i presepi che con la fantasia di un bambino si costruivano ogni inverno, nell’attesa delle feste natalizie -e soprattutto dei loro regali-. Lo sguardo si sposta più a sud, ed osservando la costa trova un’altro agglomerato di luci, diviso dal precedente con un misterioso spazio nero, talvolta collegato dai fari di qualche rara automobile che, nel buio assoluto di questa notte, paiono luci di un’astronave nello spazio siderale. Nessun peschereccio illumina on i potenti riflettori il mare piatto, che diviene un tutt’uno con il cielo, quasi a voler stringere a tenaglia la sottile striscia di vita che illumina la costa continentale. Ed un questo buio, illuminato dalla sola luce dello schermo, siede tremante un buffo aspirante scrittore.
Egli non sa realmente cosa scrivere, non pensa mai a ciò che sta facendo quando accende il suo computer e lascia che le sue dita vengano liberamente trascinate dalla fantasia della sua colorata mente deforme: solitamente cade a peso morto nel mare dei suoi pensieri, e fa che per iscritto essi vengano indelebilmente incisi. Non teme nulla fuorché se stesso, e nulla gli interessa se non il fatto che ciò che scriva venga fissato nella Memoria Eterna della Rete. Il suo, più che altro, non è che un banale passatempo che lo accompagna nelle notti insonni, ma che stranamente quella sera si rifiutava vanitosamente di assecondarlo. Nulla poteva valere, nè le suppliche, nè la pietà, nè le trappole: la fantasia infinita quella sera era in sciopero, e le dita rimanevano ferme sulla seconda riga, appena sotto la data, senza sapere che fare. La situazione, a dirla tutta, era piuttosto imbarazzante: il freddo pungeva, il sonno pian piano arrivava, la batteria del computer man mano che i minuti passavano andava esaurendo i suoi ultimi residui, ma da lassù niente di nuovo: il cervello aveva chiuso i battenti, niente da fare. L’aspirante scrittore, stizzito, provava una strana forma di rabbia mista a rassegnazione in quella buffa situazione, in cui oltretutto era costretto a respirare buona parte del fumo che uno zampirone di dubbia efficacia produceva in gran quantità ai suoi piedi. Che fare dunque? Come ispirare la propria fantasia in mancanza di liberi pensieri? Dopo una complessa e seccata meditazione, il giovane non vide altra soluzione che adottare il più antico dei trucchi di uno scrittore: la descrizione del paesaggio. Da esso poi, sicuramente, sarebbe derivato tutto il resto; così cominciò, una volta osservato lo scuro paesaggio che lo circondava, con l’analisi di un elemento piacevole di quel luogo, ma che in quelle circostanze si rivelava piuttosto fastidioso. Così, con un sarcasmo ben nascosto ma inevitabilmente trapelante, le sue mani, scivolando elegantemente sulla tastiera, coprirono la prima riga di quel suo irregolare passatempo:
“Un fresco vento notturno scuote i rami degli anziani olivi, facendo fremere di tremore la pelle scoperta che, un po’ spavaldamente, lo sfida…
Ottavo post
Sabato 28.06.2014 23:53
Oggi, leggendo i primi capitoli di un famoso libro che avrei già dovuto conoscere a menadito diversi anni fa, mi sono imbattuto in qualcosa che mi ha acceso una luminosissima lampadina in quel buio antro disordinato che è la mia mente. Il tema di fondo è esattamente ciò che sto facendo e la sua moralità: quel che scrivo in questo blog.
Io mi abbandono ad ore ed ore di scrittura sregolata e (apparentemente) libera, dove parlo al vuoto di me, dei miei pensieri, delle mie idee, delle mie paure e dei miei deisderi. Parlo di tutto e di niente, di cosucce irrilevanti e di grandi quesiti della vita (anche se forse è un po’ superba questa mia ultima qualificazione), ma con un fine nascosto. Al di sotto di tutta questa bella coperta colorata di parole ed idee sparse, c’è un velo bianco, chiaro, con pochi disegni geometrici che ben delineano con sconcertante oggettività quali sono i miei obbiettivi. Io scrivo, fondamentalmente, per cercare qualcuno o qualcosa che si rispecchi in me, e se questa non meglio definita entità non esiste, io scrivo per plasmarmela. Mi sono reso conto, con il tempo, che il mio basico atteggiamento di superbia nei confronti del mondo ha picchi talmente alti che io, consciamente o inconsciamente, aspiro al plasmare le menti di chi mi circonda affichè tutti loro mi diano ragione e si adattino alle mie idee. Io di natura non sono affatto propenso all’ascolto, se non di una persona o una cosa che stimo enormemente. Delle persone che mi circondano, che io magari amo e a cui voglio bene ma che reputo “coscienziosamente inferiori” a me, mi interessa solamente plasmarle a mio uso e consumo. Forse esagero nel dire questo, e forse sto ingigantendo un’aspetto dell’Uomo che è comune a tutti noi, ma sinceramente poco me ne importa: io mi accorgo da tempo di agire, talvolta, con questo unico fine, fine che io ritengo a dir poco disgustoso, e che voglio eliminare assolutamente. Non posso impormi con tale veemenza e violenza su chi mi è vicino, e non posso accoltellare in tale modo le persone che amo e che amerò. Devo mutare il mio modo di scrivere, di parlare e di rapportarmi dal “dimostrare che ho ragione” al “esprimere la mia opinione ed argomentare le mie motivazioni”, basandomi sempre e comunque sulla saggissima e nobile massima di Voltaire, Non condivido ciò che dici, ma sarei disposto a dare la vita affinchè tu possa dirlo. Ciò che mi ha illuminato -e mentre scrivo queste righe, mi chiedo seriamente quanto ve ne possa interessare, ma alla fine se siete arrivati all’estremo gesto di leggermi vuol dire che avete proprio esaurito tutti i vostri propositi di svago, motivo per cui non dovrei turbarmi troppo- è stato ciò che il geniale protagonista de “Il Ritratto di Dorian Gray” espone rivolgendosi al previo citato giovinetto al loro primo incontro, nel secondo capitolo. Lord Enrico, alla domanda del perchè non volesse correre il rischio di influenzare con le sue idee la persona di Dorian, risponde con queste parole:
“Perchè influenzare qualcuno significa dargli la propria anima. Egli non pensa più i suoi naturali pensieri, non arde più delle sue naturali passioni, non ha più le sue reali virtù. I suoi peccati, se pure vi è qualcosa che si può chiamare peccato, sono di accatto. Egli diventa l’eco della musica suonata da un altro, l’attore di una parte che non è stata scritta per lui. Lo scopo della vita è lo sviluppo di noi stessi, la perfetta attuazione della nostra natura: è questa la ragione d’essere di ognuno di noi.”
Ecco, in queste parole io mi ritrovo appieno, riconoscendo il mio errore e trovando inevitabilmente la colpa del mio carattere negli effetti del mio agire sulle vittime. Ecco, qui, brutalmente chiara, il male da evitare. Il voler convincere gli altri delle mie idee non è solo atto di superbia allora, bensì violenza su un (presunto) debole, cattiveria se non perfidia e dimostrazione di egoismo nei confronti di chi passivamente subisce me stesso. Questa la chiara conclusione, per certi versi ovvia. Ma la domanda rimane: perchè tutto ciò? Perchè ho agito in tal modo e soprattutto, perchè pur sapendo e riconoscendo il mio errore, vi ricado talvolta -anche se in misura decisamente minore al passato- ? La domanda ha ronzato rumorosamente nella mia testa mentre leggevo appassionatamente le pagine di questo libro pregno di saggi concetti e lezioni di vita, quando alla fine, poco dopo, una risposta è balzata dal fondo di una scena -ed ancora, mi chiedo perplesso cosa possa spingere una persona sana di mente a leggere queste mie immense seghe mentali, cosa davvero possa invogliare te, lettore di questo ridicolo blog, ad ascoltare e seguire questi discorsi senza senso, futto di inevitabile insanità mentale: ma che fai ancora lì, attaccato al computer? Esci, vai a farti un giro!! (in bici magari, che è meglio u.u ). Dunque, riprendiamo la mia inutile serietà, e chiudiamo questi trattini sempre odiati e innaturalmente lunghi-, quando nel terzo capitolo, all’interno di una riflessione personale, il caro Lord Enrico si svela, riferendosi a Dorian Gray:
“E quanto era attraente, la sera prima, a cena, seduto di fronte a lui, al club, con gli occhi spalancati e le lebbra socchiuse, tremanti di gioia, mentre i paralumi rosati siffondevano il più intenso rosa sulla nascente meraviglia del suo volto. Parlargli era come suonare su un violino perfetto: rispondeva ad ogni tocco, ad ogni fremito dell’archetto… V’è qualcosa di terribilmente affascinante nell’imporre la propria influenza; nulla le sta a paro. Proiettare la nostra anima in una bella forma e lasciarvela indugiare un momento, udir tornare a noi l’eco del nostro spirito arricchita dalla musica della passione e della giovinezza, versare la propria personalità in un’altra come un sottile fluido o uno strano profumo”
Ecco, ecco il perchè. Io ci trovo piacere, un meschino piacere nell’impormi a me stesso, e lo scoprire che la vittima ha subito il mio plagio, ed ora non solo concorda con me, ma mi ammira per il mio pensiero, è il massimo della soddisfazione. Ecco, mi serviva Wilde per capirlo. L’espressione massima della superbia, ciò che solo un essere profondamente egoista potrebbe produrre.
Il sadico piacere della vittoria sull’altro.
Questo credo sia il mio più grande male, ed io lo scrivo -inutilmente- su questi post dell’abisso, in cui rielaboro (maniacalmente?) i miei pensieri in cerca di quella scintilla madre che ha provocato ogni problema, indagando sulle cause dei miei mali -che poi divengono inevitabilmente mali altrui- per estirparli e diventare una persona migliore. Ma perchè scrivo? perchè devo stampare indelebilmente questi miei pensieri, altrimenti nella mia mente confusionaria rischio di dimenticarmeli o di lasciarli degenerare come loro vogliono.
Va bene. Fine. Spero vi siate definitivamente convinti, lettori fantasma di un blog inesistente (e tendenzialmente dislessico) che sono un matto 🙂 O dai, se non un matto, ammetterete che qualche leggera insanità mentale ce l’ho, andiamo! O forse pretendo troppo, anche in questo, chissà..
.. forse sono solo una persona che si fa troppe seghe mentali, in cerca di continua felicità e, vittima delle sue alte ambizioni, in una costante insoddisfazione per le piccole pecche che sporcano un bel dipinto. Che poi alla fine me ne convinco da solo, che male non è, che io avrò i miei difetti ma non devo farne un dramma, e che queste sono solo seghe mentali di uno che non ha altro da fare alle 0:48 mentre scrive sul terrazzo guardando il mare e scacciando fastidiosi moscerini che prepotenti si posano di continuo sullo schermo. Eccheccazzo andate a rompere da un’altra parte! Bah, che palle..
(un segaiolo mentale.. non suona neanche male..)
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/vita/frase-3117>
Settimo post
Venerdì 27.06.2014 23:51
Settimo post, gran numero per uno scrittore perditempo come me. Dove ci eravamo lasciati? Ah già, l’amore. L’amore finisce, come si sa, ma se devo essere sincero, non immaginavo in questo modo. La sofferenza delle attese aveva già maciullato da tempo quel mare di emozioni che mi spingeva a scrivere, cantare e decantare la Bellezza, che fosse di lei o che fosse del mondo, sino al punto che ormai ciò che rimaneva era solo un grosso peso da rimuovere al più presto, una palla al piede che mi incatenava, tenendomi legato ad un passato che mai più sarebbe tornato -e probabilmente mai più tornerà-, nel desiderio utopico di riagguantare quegli abbracci, quelle carezze, quei caldi baci che mai prima avevo conosciuto, e che credevo potessero solo venire da lei. Un desiderio, questo, pian piano scemato nei mesi sino al più banale silenzio di sentimenti, tanto che ora, ora che quasi sono due settimane dal nostro definitivo addio, pare passato un anno. I miei ricordi, in quelle rare occasioni in cui riaffiorano (e non lo dico per spavalderia, bensì con leggera amarezza), risalgono al lontano passato, ai primi mesi, quei mesi carichi di amore e dolore, di sofferenza e goia, in un accavvallarsi continuo di bene e male, una macchina delle toture che potrebbe far invidia anche ai più ingegnosi aguzzini dei Piombi veneziani. Sono soltanto musiche lontane che mi riportano il sorriso in volto, e che non mi fanno per nulla soffrire. La sofferenza è stata prima, quando ancora dovevo perderla, perchè il nemico da affrontare era la Paura di rimanere solo. La solitudine che ho sempre tanto agognato ora si ritorceva contro di me, legandomi a lei in modo spasmodico ed irrazionale, tanto da arrivare ad oggi. Ma adesso il mio spirito vola libero, come un palloncino finalmente slegato dal suo giogo, che scappa via, lontano, ed osserva il mondo dall’alto, ridendo dei bambini che ora piangono a terra senza il loro divertimento di elio.
A cosa mi sono serviti questi sei mesi? A nulla? No. Questi, per quanto paradossale possa sembrare la mia affermazione, sono stati i sei mesi più formativi che abbia mai passato. Sei mesi in cui sono stato obbligato ad affrontare le mie paure, a mettermi in gioco e ad accettare di cambiare me stesso, a riconoscere i miei errori e a non ricaderci mai più -anche se pagando amaramente il prezzo di queste scoperte-, sei mesi di gioie e dolori, sei mesi di con-vivenza con una persona molto vicina e molto lontana da me, talvolta esagerando, plasmando o nascondendo la relatà per il solo unico scopo di averla accanto a me. Alla fine, però, la verità deve venire a galla, e con essa giunge dagli abissi del mistero che è l’amore anche la parola FINE. Non poteva che essere così, un bene per entrambi, ma sprattutto per me, perchè ho imparato moltissimo, e mai dimenticherò. Non saranno i bei ricordi a rimanermi dentro, ma gli insegnamenti di vita, le nuove istruzioni e la nuova conoscenza che mi forma, mi plasma e mi fa crescere ogni giorno.
Io ricordo perfettamente quella mattina. Ero all’asilo, appena trasferito nel mio nuovo paese,e mia madre voleva insegnarmi ad andare in bicicletta. Feci pochi metri da solo, e poi caddi sbucciandomi i gomiti, e mentre piangendo tenevo fermo il cotone sulle ferite, in quella fresca giornata di sole, mia madre mi diceva “Sbagliando si impara, ricordatelo sempre”. Io, un piccolo bambino logorroico, la tartassavo di mille domande, non riuscendo a comprendere le sue parole: mi pareva impossibile che proprio cadendo con quella vecchissima biciclettina verde fluo sarei riuscito a non cadere più. Mi pareva e mi parse impossibile per molto tempo; talvolta credetti a quel paradossale messaggio, in molti altri casi lo ingorai riducendolo ad un banale modo di dire. Solo in un occasione, e ne sono sicuro, mi convinsi definitivamente che quelle parole sono vere, e che la Verità che esse rappresentano è ciò che di più inattaccabile possa esistere a questo mondo. Il 16 giungno 2014, quando ho lasciato lei.
Ecco perchè, anche se questa sgangherata relazione probabilmente non diventerà altro che un pallido ricordo, dentro di me resterà indelebile. Non per ciò che ho provato, non per ciò che ho scoperto, non per ciò che ho passato.
Unicamente per ciò che ho imparato.
Che altro dire allora? Che l’amore è un esperienza da ripetere, assolutamente. E poi chissà, la prossima volta, ora che sono più cosciente di me stesso, saprò comportarmi nel modo giusto, eviterò gli errori commessi in passato, saprò dedicare me stesso meglio ad una persona che in cambio mi consegnerà in uno scrigno la sua Fiducia, il regalo più grande che si possa mai fare. E custodirò quello scriglio con dedizione, e lo difenderò da tutto e da tutti, e sarò un vecchio guardiano di un tesoro nascosto, e chissà per quanto tempo lo resterò. So solo che ogni secondo passato con quel tesoro fra le braccia sarà più importante di un anno passato senza di esso.
E di questo, io, ne sono certo.
Sesto post
09.06.2014 19:33
Sesto post, sei come i mesi passati assieme alla persona che amo. Sapete, oggi, dopo un mese di silenzi e una fine quasi scontata, siamo riusciti, ancora una volta, a continuare questa relazione. Quanto può dirare ancora? Un anno come tre giorni.
La fine mi sembrava segnata, ed anche se ormai la voglia di continuare questa relazione era svanita del tutto, ieri sera i suoi messaggi di rassegnazione mi avevano massacrato. Era l’amore che provavo per lei, che ritornava nel mio cuore dopo tanto tempo. La sveglia alla otto ha suonato, quando era già da due ore che ero sveglio, a letto, pensieroso sul da farsi. Partenza alle nove, e dopo una breve tappa un’estenuante mezzora di lente pedalate sotto il sole mattutino che già iniziava a scaldarmi. Ogni metro che mi avvicinava a lei era un sospiro, un gemito, un voler trattenere le lacrime che prepotenti volevano sgorgare già a metà strada. il mio silenzioso lamento, quasi zittito, riapparve quando, incontrato un lontano amico, gli dissi “Pensa dove sto andando io: dalla mia ragazza, che mi vuole lasciare”: la smorfia maligna mi contorse il volto nel pronunciare quell’ultima, tspaventosa parola. Non bastarono le parole di conforto di un povero grande ragazzo per togliermelo, se non la mia ferrea forza di volontà nel decidere con caparbietà quale era la giusta via da fare. Ma ogni metro, ogni metro percorso era qualcosa di spaventoso, angosciante, annientante, ed il mio spirito, che in parte odiava ed odia quel magnifico carattere di I, la mia I, era in ginocchio, gocciolante di sangue. Arrivato alla porta la sufficenza di lei non bastòl a trattenere ciò che da quella mattina covavo dentro, un pianto diperato, un pianto di lacrime vere, quelle lacrime che non riesco mai a versare ora scorrevano dal mio volto come non mai: quanto tempo era che non piangevo?
Non piangevo, per l’esattezza, da Gennaio, quando tristemente confessai il mio passato di depressione ai miei genitori. E non piangevo per un amore dall’ottobre scorso.
Il pianto, il mio tallone d’Achille.
Il pianto, il mio sfogo mancato.
Il pianto, la mia menomazione.
Perchè io, cari lettori annoiati, cari lettori inesistenti, non so piangere. Piansi tanto da bambino, ma poi, quando la società me lo impose, imparai a non versare più nemmeno mezza lacrima. Ed il dolore da allora rimane dentro di me, feroce belva assassina che mi quarta e mi dilania, animale senza pietà che mi uccide.
Lei impassibile, con la freddezza di chi non vuole credere a ciò che vede per non impazzire, mi disse “Io non voglio un ragazzo che è sempre depresso, io devo essere felice. Non mi posso accollare tutti i tuoi problemi, ne ho già abbastanza, non puoi pretendere questo da me”. La sensuale soldatina delle Schutzstaffeln mi guardava dall’alto della sua sfingea bellezza, intimandomi la verità. Io capì, ed assecondai il suo volere, che fondamentalmente combaciava con il mio. Ma lei, la mia I, davvero mi parò in questo freddo modo? Davvero ritenne che, dopo un mese di suo isolamento, la colpa di tutto fosse mia, e che lei nulla avesse in torto, e nessun rimorso davvero la colpì? No, io so che non è così. E nella certezza di questo fatto, ho assecondato le sue richieste, aspettando il prossimo incontro per svuotare il mio sacco. Il sacco dei miei rancori verso di lei va svuotato, non v’è alcun dubbio, ma altrettanta assenza di dubbi è anche nel fatto che le colpe, quelle di radice, siano mie.
Io, che con la società cerco di mostrare superiorità e forz, una volta trovata la ragazza che cercavo, ho svuotato su di lei tutto quel cumulo di dolore che mi portavo appresso, e l’ho fatto consciamente, rendendomi sempre conto di come questo la stesse distruggendo, annientando la luna di miele che rende l’amore così bello, almeno nei primi mesi. io sono la causa scatenante, alla mia I può essere solo mossa l’accusa di essere completamente incapace di reggere ciò che io avevo retto fino ad allora, oltre all’aggiunta del nuovo Male che avanzò lentamente fra di noi. Un alone di mistero avvolge quella splendida rosa spinosa, un mistero affascinante che voglio a tutti i costi svelare. Ma cosa succederà poi? Fra tre giorni la lascerò? Che farò con chi, disperata, mi tratta con la freddezza di una macchina?
La pazienza è la virtù dei forti, ma quanta ne avrò ancora? Una sfida contro me stesso, una sfida contro tutto e contro tutti, contro gli amici che mi considerano un povero, debole coglione, contro gli altri che desiderano solo ciò che comoda loro, contro un’amore difficile che fatica a camminare.
Chi vivrà vedrà.
Quinto post
20.05.2014 01:13
Nella “sala studio” della casa scrivo una pagina silenziosa del diario del Vuoto, mentre altri studiano pensierosi delle verifiche che li attendono fra poche ore. I passi rimbombano nel silenzio delle stanze illuminate da vecchi neon, la stanchezza traspare anche sui volti più giovani e carichi di energia che non vogliono arrendersi all’inesorabile girare delle lancette. In una stanza vedo lo spaccato dei giovani della nostra generazione. Alla mia sinistra quattro computer del promettente genio dell’informatica, appositamente lasciati in stand-by perché il lavoro non ha mai tregua, a nessuna ora di nessun giorno: un lampeggiare emblematico di noi uomini del futuro. Più in là consumati manuali di filosofia rappresentano quel che resta del liceale, che sfoglia ansiosamente le pagine piegate e piene di orecchie in cerca della soluzione all’ennesimo concetto inesplicabile di un sapere del passato che spaventa il presente ed angoscia il futuro. Segue il computer di un maniaco musicale, smanettone neo informatizzato che alterna la noia del passato alla futuristica velocità della tecnologia, con tutte le allettanti magie annesse e connesse: folle anarchia, libertà del ventunesimo secolo che si esprime come mai in passato e spaventa le generazioni precedenti, con una nuova lotta tra padri e figli combattuta questa volta sulle frequenze della rete. E infine l’ultima superstite, che con le ultime energie sfoglia le pagine della sua antologia, con la calma rassegnazione di chi è certo che all’una e mezza c’è poco da fare se non illuminarsi gli occhi con i forti colori fluorescenti che titolano i capitoli degli appunti. Il rumore delle ventole dipinge lo sfondo del ticchettio della tastiera, e mentre un ragnetto fa capolino tra i battiscopa la stanchezza comincia ad abbracciare anche lo scrittore sonnambulo che non ha voglia di dormire, ma preferisce svagarsi per non pensare a cose troppo serie per farlo dormire tranquillo. Due giorni davvero tra i suoi simili, e sembra che si sia dimenticato dell’esistenza del resto del mondo: dove sono finiti gli amici, e la ragazza tanto amata è quasi dimenticata ormai! Come mai tutto questo? Come mai tali stravolgimenti di personalità in così poco tempo, così inesplicabili e meravigliosi? E’ forse qualcosa di nuovo, vero e terribilmente tragico: la realizzazione. Realizzazione di ciò che è e di ciò che invece è stato, forzatamente, fino ad ora, quel magro scrittore dagli occhi incavati che fissa malinconico la tastiera, ridacchiando fra se ogni tanto per qualche bellezza della vita che gli scorre davanti. Ciò che è, è questo appunto: la riflessione, l’essere un’entità pensante e meditante, non un leggero straccio colorato che svolazza sospinto dal vento, tra le foglie ed i fiori dell’estate che arriva. No, lui è l’opposto di tutto ciò, egli è la meditazione, la riflessione ossessiva che lo porta sempre e comunque al malessere interiore, alla dannazione dello spirito ogni volta che la sua mente, dopo vorticosi numeri degni del miglior equilibrista, lo riporta alla realizzazione della sua completa solitudine filosofica. Non è solitudine reale, sia chiaro: egli è circondato di persone che lo amano, che gli vogliono bene e che, a modo loro – ognuno in un modo a se – lo comprendono paragonando la loro situazione a taluni aspetti della sua. Ma la solitudine filosofica, quella del modo di vedere la vita, è ciò che lo attanaglia maggiormente, perché essa è unica, e terribilmente distante da quella altrui. E’ un blob gelatinoso che assume forme mostruose, e che seppur mutevole rimane costantemente ben distinto dall’omogenizzato sociale che lo circonda, pur considerando i suoi granuli irregolari. Che dire allora, che fare una volta appurato questo?
Scrittore mio, la soluzione ti è ben nota, già da tempo: la tua unicità è assioma ineluttabile, accettalo e valorizza chi da quell’omogenizzato si distingue e ti si avvicina, carpisci da loro tutto il bene che puoi e ricambiali con tutto te stesso: solo così la tua vita avrà un senso, solo così la tua vita conoscerà la felicità, solo così la tua vita non conoscerà, mai, fine.
Sono stanco e ho sonno, buona notte scrittore paranoico dei miei stivali ( 01:54)
L’omonimo, la guida – PRIMO
Il cammello solo e vagante meditabondo fra le dune in verità non sta tracciando una via nuova, ma ripercorre, anche se per soli alcuni trati, le orme di un suo passato prossimo. Le orme di una persona da cui ha preso il nome, una persona a lui nascosta ma che ha saputo riscoprire indagando sul suo passato, trovandone paurose somiglianze ed affascinanti punti di incontro. E’ una grandissima ricchezza, ed io ritengo che sia un delitto non rendere eterne le sue parole. Per questo alcuni post voglio dedicarglieli, trascrivendo il suo grido di geniale rabbia.
Vorrei cominciare trascrivendo una poesia, che forse era sua, ma che è firmata “Fischer”. Forse era il suo nome d’arte, non ne ho idea. Poco conta, sono le parole che regnano sulle pagine ingiallite di storia e dolore.
Fischer – E’ meglio andare in due
Andare da solo è un brutto andare
Il piede che così spesso incespica, il cuore così inquieto.
E’ meglio andare in due.
E se cadi chi ti sostiene il passo?
E se sei stanco chi ti trascina con sè?
E’ meglio andare in due.
Tu silenzioso viandante attraverso il mondo ed il tempo
prendi Gesù Cristo a tua scorta.
E’ meglio andare in due.
Egli conosce la strada, conosce il viottolo
e poi ti aiuta con il consiglio e l’azione.
E’ meglio andare in due.
Perchè mi ha colpito? Perchè il suo messaggio è essenziale per me. Io trovo che sia impossibile vivere completamente da soli, una persona al tuo fianco è la cosa più importante, il dono più grande, la ricchezza più magnifica che un Uomo possa avere. Io che una volta ero tipo solitario, che sfuggicvo da tutti rifugiandomi nelle mie convinzioni (forse anche con superbia) ora mi rendo conto di quanto sia grande la compagnia. Perchè senza di essa, non resta che la morte: come ho letto in una citazione di Aldo Busi, “La libertà è la forma intermedia della solitudine, il suicidio la forma estrema dell’unica compagnia che ti è rimasta.” E’ meglio, sempre, essere in due.
Un altro testo che mi ha colpito molto, e che ho sentito particolarmente mio si intitola così:
PUBBLICI CONCORSI
Oh, specchio di verità, ispira la mia rabbia. Che cosa mi muove? Soltanto polemica, tendenziosa, fine a se stessa; non recriminazione di cittadino leso nella civica purezza, ma rancore di chi si ritiene escluso dal novero dei “santificati da qualche dio su in cielo”. Nella mia esposizione fieramente partigiana denuncio e sottoscrivo che nel reclutamento del personale si annida la sottile piovra clientelare.
Senza inutili preamboli affermo che il vecchio trucco si nasconde nelle apparenze di quel magico inafferrabile mistero noto sotto il nome di “pubblici concorsi”.
Si concorre in tutto: dall’aiuto all’assistente all’ambiente, dal cuoco della mensa del Dopolavoro agli assistenti delle pubbliche cucine, fino ai posti di direttore di fantozziana memoria.
Si concorre, si con-corre, è così, deve essere, siamo o non siamo un paese moderno? C’è chi ai concorsi affida tutte le proprie chances di esistenza, chi li frequenta così… per il gusto, perchè sono di moda. Sono così coreografiche quelle grandi masse che riempiono interi stands delle fiere: scenografia felliniana numero uno. I ragazzi sciamano tra le lunghe file di piccoli banchi e sedie pieghevoli di vecchio cinema parrocchiale. Si vedono facce nuove e di vecchie volpi del grande gioco che non demordono. “Ma tu c’eri quella volta a Verona? e a Roma? Con quel buffo tema di Pertini e il Papa?” La solenne dicitura di quel titolo era stata accompagnata dallo scoppio di una risata che aveva fatto uscire dai gangheri il presidente della Commissione. “Sì, quanto tempo è passato! Ma a Mestre non sei venuto, no?”
L’atmosfera è tesa come alla partenza della finale dei cento metri; le considerazioni di rito del direttore dei lavori passano quasi inascoltate, le matite trepidano sul dito di partenza, inizia la gara, si sente il frusicare delle biro sulla carta, il rumore dei calcoli mandati a mente in brevi giaculatorie; lo spirito della competizione più aspra è tangibile nell’aria. Non è questo il momento dei voli pindarici dell’immaginazione, ci si concentra. I concorsi sono uno spettacolo nella società dello spettacolo.
Tuttavia è noto che questi strumenti atti a garantire l’imparzialità e l’efficienza della pubblica amministrazione, congegnati in un paese di semianalfabeti, dove chi faceva la terza media aveva un titolo non da poco in mano, è noto che stanno pressochè paralizzando la pubblica amministrazione stessa. Correggere diecimila temi contenenti “le impressioni della cordialità nella storia (!): inconto di Pertini con il Papa sull’Adamello” è un impegno tale da assorbire fino all’esaurimento delle energie intellettive, ma anche dico, all’internamento in manicomio dei professori di lettere della commissione esaminatrice.
Quello che ci vorrebbe sarebbe un attento studio comparato di ciò che pensano gli Italiani dell’incontro tra Pertini e il Polacco; allora si capirebbero molte cose sull’ “Italia reale” contrapposta all’imbellettata immagine di modernità che la propaganda di regime ci offre.
Ma torniamo ai concorsi. Le esigenze di snellirli per stare al ritmo dela vita moderna hanno stimolato la fantasia degli amministratori, che sulle orme del sistema compiuterizzato di spoglio delle schedine del totocalcio hanno trovato il sistema di meccanizzare i “pubblici concorsi”: i quiz, siamo entrati nell’epoca dei quiz. Non è una cosa tecnicamente facile ridurre lo scibile umano in formato di quiz, come si sa.
Il moderno concorrente non consuma più le notti su poderosi volumi di Diritto Amministrativo, no, immagini di altri tempi. Il moderno concorrente legge l’elenco telefonico, cronometro alla mano: una gara contro il tempo. La nostra è la società dello spettacolo e ipubblici concorsi ne fanno parte integrante.
Come distinguere le carriere? Come si possono scoprire le capacità critiche con un implacabile, ottuso giudizio sintetico possibile con i quiz? Sì, ci sono delle difficoltà, ma anche queste saranno superate. L’America utilizza i quiz fin dai tempi scolastici e si sa che tutto quel che viene dall’America sconvolge giustamente le ridicole, insufficienti, cattive abitudini della vecchia Europa.
E le basse carriere? Come si fa a sintetizzare quel patrimonio di sapienza, sapienza positiva, fatta di elementi a volte impalpabili che fanno il mestiere, “l’arte”: un falegname, ad esempio, è un falegname non un risolvitore ufficiale di quiz logici. Come si disprezza così l’arte del padre adottivo del figlio di Dio!
Pubblici concorsi: distruzione. Distruzione della mia disperazione. Dio, sto male; non ho futuro. Sono tutti complici, proprio tutti indistintamente. Tutto si distrugga come in un big bang in miniatura, tutto giunga finalmente ad esplodere e poi più nulla, non più pubblici concorsi.
Un testo pregno di verità. E la verità spesso fa male, malissimo.