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Ventitreesimo post

22.03.2015  02:14

PRAVDA

Quel che cerchiamo, e che non troveremo mai, motivo per cui decidiamo di illuderci di possederla. Chi crede di averla estratta da credenze religiose, appelandosi alle varie realtà rivelate che questo come quel credo offrono sul bancone del mercato, chi invece la insegue (rari casi ormai) nell’ideale, e chi, nella maggior parte dei casi, non la trova. Che significa non autoilludersi di possederla? Significa, spesso, non riuscire ad identificare tutte le spie sensoriali in questa mancanza, ed essere quindi destinati alla sofferenza. Significa soffrire di vuoti interiori costanti e non identificabili, i quali comportano una disperata fuga dal dolore verso il piacere, che però si concretizza nell’uso degli strumenti poco o meno idonei. Stendersi a letto ed ascoltare la propria musica; sedersi su di un prato primaverile aspirando i profumi della natura, solleticati da un vento leggero e riscaldati dal tepore del dolce sole; spendere il proprio tempo nelle proprie passioni dimenticando i propri doveri, senza ritegno; gustarsi un buon piatto, bere un buon vino, e poi rilassarsi assaporando un dolce tabacco con lenti sbuffi regolari; compiacersi della bellezza di qualche ragazz*, magari intrattenendo qualche rilassata quanto futile discussione solo per il gusto di parlare ed apprezzare la parola altrui, godendo della musicalità della voce, la correttezza della grammatica, lo stile retorico e le abilità argomentative, il pizzico di ironia nell’esposizione di ogni concetto; non rinunciare ai piaceri del sesso, attivamente o passivamente –de fortuna gustibusque-. Ma sono soluzioni temporanee quanto inutili, cercano di drogare il nostro fisico per influire sulla nostra psiche, senza darci una vera soluzione. E’ una ruota bucata che viene continuamente riparata alla meno peggio con pezze e vulcanizzazioni che cedono dopo poco, tanto che il kit di riparazione diventa una condicio sine qua non per poter continuare a viaggiare, seppur in modo così incerto. Ecco perchè ci troviamo tristi ragazzi ed adulti, usufruitori di tutte queste pezze di felicità (e per alcune di queste dipendenti), senza una soluzione stabile per continuare come si deve la vita. Spesso le situazioni divengono tragicomiche quando la pezza diviene l’Amore: ecco che ci si inerpica in relazioni utopiche, nel tentativo di renderle realizzabili, e di potersi tuffare in quell’illusione per sfuggire ai propri fantasmi esistenziali trascinando in questo folle suicidio anche un* sventurat* consorte. Altri miraggi ancora vengono inseguiti, come la fama, la bellezza, la ricchezza. E’ interessante notare che in questa infinita ed assoluta ipocrisia vi è una chiara base di individualismo egoista, suggestionando una società che verrà destinata a fallire totalmente, degenerando in anarchici totalitarismi, ma questo è un altro discorso. Tornando alla mancanza di una Verità, in una società così degradata, ove la quasi totalità dei nostri compagni di sventura condivide la nostra condizione tanto quanto la nostra ostinazione nell’ostentarne estraneità assoluta, un segno di onestà e di onore sarebbe forse la sua accettazione. Perchè negarne l’appartenenza? Perchè tuffarsi nel mare di teatrale ipocrisia rispondendo sempre che “va bene, sì” “sto bene, grazie” “sono felice”? Un atto di onestà sarebbe per me il dire, senza paura, che no, io non sono una persona felice, non sto bene in questo mondo, non sono soddisfatto di me: è così, perchè negarlo? Chiaro, questo non esclude il desiderio di lotta e di riscatto da questa situazione, nè la convinzione che la vita, di per sè, sia bella. Esclude però l’assunzione di molte prassi comunitarie false, che io onestamente rigetto, perchè il non farlo sarebbe disonorevole, ed io ho una dignità. Perchè sorridere sempre nelle foto se non siamo felici? Perchè partecipare alle feste quando non siamo adatti a queste? Una festa è un divertimento, espressione di gioia, ma se questa ci manca perchè tristemente simularla? Non viviamo schiavi delle prassi, non pieghiamoci alle convenzioni, strappiamo il giogo della società, sfidiamo la sua politica del terrore e siamo onesti, per una volta, a testa alta e senza vergonga! Non sono felice e non ho paura di dirlo.

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Ventiduesimo post

Domenica 08.03.2015, ore 11:48

Auguri a tutte le donne, tanto per cominciare. Per quanto questa festa abbia perso buona parte dei suoi significati, ormai soffocata dalla cultura consumistica occidentale che nel nome del cieco progresso animale dimentica -o spera di dimenticare- ogni valore umano in favore del Dio denaro, è bene agire per non scordarla.
Ieri sono stato ad un concerto, diciamo, “alternativo”, per l’inaugurazione di una caserma che ora diverrà “centro di aggregazione e spazio di libero lavoro aperto ad associazioni e liberi cittadini che intendono esprimere le loro potenzialità e creatività”, meglio conosciuta come “prossimo pseudo-centro sociale per tossici e disagiati”.  Creatività, che parola vuota oggigiorno. Siamo tutti creativi, e siamo tutti delle nullità vuote, ed è molto triste. Ieri sera c’erano una serie di elementi che, a mio avviso, fotografano questa società persa nel vuoto, drogata ed ubriacata dal consumismo come unico fine della propria vita, affogata nell’irrazionalità per fuggire da una realtà che la uccide. Era una sagra paesana per molti aspetti, con tanti ragazzi del luogo che si ritrovavano per vedere “cosa c’è di nuovo a casa mia”, le famiglie con i bambini, i pensionati che gironzolavano per i corridoi gettando occhiate eufemisticamente confuse verso le salette degli “istituti d’arte” e dei gruppi di aspiranti artisti (quali io personalmente accompagnerei al confino se mi fosse concesso, peraltro con approvazione di buona parte del mondo anziano), i personaggi del paese, quelli che tutti conoscono come il cartolaio, il panettiere, le donne della parrocchia e così via, senza contare l’elemento unico di un paese, ovvero il matto: l’adulto sopra i quarant’anni che si trova regolarmente ad ogni appuntamento sociale della comunità e dà il meglio di se suscitando ilarità e catalizzando le attenzioni degli annoiati. Dall’altra parte c’erano i giovani “alternativi”, spettacolo triste e penoso di un futuro di sconfitte e decadenza quale loro rappresentano. Alternativo, creatività, anticonformismo… letteralmente parole al vento. Orrore nella mia mente al solo vederli, perchè NO, non sono nè alternativi nè creativi, nè men che meno anticonformisti, non sanno neppure cosa significhi quel termine, è impossibile spiegarglielo: un’anticonformista è colui il quale, presa coscienza della realtà in cui vive, conoscendola in tutti i suoi dettagli, si oppone violentemente all’ordine prestabilito usando se stesso, il proprio corpo e spirito come arma per combattere contro ciò in cui lui non crede ma che gli viene IMPOSTO dalla società; creativo è colui il quale con il suo ingegno, partendo dalla realtà riesce a INVENTARE qualcosa di nuovo ED UTILE, e si badi al fatto che il concetto di utilità non è affatto materialista, ma anche spirituale ed intellettuale (termine poco amato oggigiorno poichè i netto contrasto con l’ignoranza animale diffusa nel mondo giovanile, unita all’arroganza spudorata); alternativo è colui il quale vuole esprimere UN ALTERNATIVA alla realtà attuale, una diversità che può o non può essere anticonformista ma che esprime anzi trasuda novità e distacco dall’abitudine. Ed invece cosa vedono i miei occhi, e cosa sentono le mie orecchie martoriate? Trovano un ammasso informe di mummie, di zombie persi nella loro ignoranza, privi di ogni riferimento logico, razionale od ideale che percependo la mancanza assoluta di un senso alla loro vita (percependo, non comprendendo), si affogano in mari di soluzioni che questa società perversa ha già preparato per loro: vere e proprie categorie di giovani persi create dal nulla che si identificano secondo canoni consumistici appositi, che comprendono musica, vestiti, atteggiamenti, film, tutto il mondo del denaro fatto a misura di depresso (nemmeno depresso è la parola adatta, è eccessivamente nobilitante, ma la uso lo stesso) per dare una risposta alle domande di questi scimpanzè scontenti. E la cosa più assurda e mostruosa è che questi canoni (peraltro rigidissimi) hanno la velleità di essere espressione dell’alternativo, creativo, anticonformista: il conformismo dell’anticonformismo, la razionalizzazione dell’irrazionale, la definizione dell’alternativa (nonchè la sua eliminazione). Un ragazzo che sente il disagio dell’esistenza, che non trova una ragione di vita oggi, cerca una soluzione. la soluzione prima poteva essere la fede nella RELIGIONE, o nell’IDEALE POLITICO E FILOSOFICO specie del marxismo, ma oggi cos’è, eh? Oggi la risposta al consumismo ed alla società di massa è altro consumismo ed altra massificazione, qualcosa di orribile e degradante: la soluzione è vestirsi con pantaloni di strani colori con risvoltini, farsi crescere la barba e tenere i capelli lunghi, raschiare un po’ di vecchiume (che però si chiama vintage) ed appiccicarselo addosso, farsi un orecchino o, nel caso delle ragazze, un piercing al naso: ecco che si è raggiunta la “tenuta da anticonformista”, ovvero CI SI E’ CONFORMATI AD UN CANONE CONSUMISTA CHIAMANDOLO ALTERNATIVISMO: è esattamente una droga allucinogena, nè più nè meno. Manca altro però, manca la creatività, ed allora cosa si fa? Come essere creativi quando ogni singolo neurone non è capace di compiere la minima operazione senza un input esterno? Ecco che il consumismo ha pensato anche a questo, perchè sì, anche la creatività è conformata: Creativo è chi fa fotografie secondo precisi schemi e scene tipiche: sempre le stesse ovunque si vada, identiche le une alle altre (bianco e nero, primo piano sfuocato con quanche viso truce e sbarbatello, una chitarra, occhi chiusi di una ragazza che guardano in basso sfoggiando la presunta bellezza di capelli così tanto trattati che le banane della Monsanto non sono nulla, macro di sassi insignificanti e così via); creativo è chi “dipinge” linee sconnesse la cui somiglianza con i disegni infantili è assolutamente casuale, poichè questi esprimono profondi concetti e sentimenti; creativo è chi “si inventa qualcosa di nuovo”, il fatto poi che questo “qualcosa” l’abbia visto scorrendo le bacheche di Facebook o guardando un video su youtube è ovviamente irrilevante. Però si chiama creatività, e nel seguire le istruzioni per l’uso della creatività ci si sente realizzati, o meglio ci si autoillude di esserlo. Il risultato è essere anticonformisti, perchè sì, è questo: l’anticonformismo è diventato il più squallido dei conformismi. Ma queste scimmie sono felici, alla fine? No, non lo sono, e perdono ad ogni passo pezzi della loro umanità, ubriacandosi di allucinazione con alcool, fumo e droghe. Io mi trovo davanti non un branco, ma singoli scimpanzè vestiti in modo quantomai buffo, che con sguardo perso ascoltano una band che suona, incapaci di trovare il coraggio per ballare, insicuri di se stessi, muti nell’assoluto vuoto che li circonda, terrorizzati dalla loro impotenza, ora cercano rifugio nello scorrere i messaggi del cellulare, ora controllano l’ora nell’attesa che “sia ora di andare a casa” e porre fine a quella penosa agonia causata dalla realizzazione del loro totale fallimento esistenziale. Io quasi soffoco a pensarci. Ma come è possibile? Soffoco in questa vacuità della società dove ormai è chiaro che non vi è salvezza. Così si uccide persino la speranza!

Il futuro non ci sarà, ore 12:45

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Ventunesimo post

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Lunedì 05.01.2015 23:16
E’ passato tantissimo tempo da quando ho scritto l’ultima volta, molte cose sono cambiate, altre no.
Ci sono idioti ovunque, persone senza cervello che giocano ad accusare il prossimo per scacciare, anzi spalmare le loro frustrazioni sul popolo, che li esclude giustamente, Idioiti ignoranti e grottescamente superbi, un giorno sarò anche io come loro, se non lo sono già. Ignoranti ed idioti, circondati da questa melma, immersi nella melma, facenti parte della melma. Io sono parte della melma che disprezzo, è incredibilmente terribile. Scrivo per scrivere? Già, sì, è così: sono pazzo. Ormai sarò pazzo a breve, in base agli orari prestabiliti entro pochi mesi, qualche giorno, due tre ore e una manciata di minuti sarò ufficialmente pazzo, con tanto di marca da bollo e timbro dell’ufficio pazzi. Pazzo, pazzo pazzo! Ma andatevene affanculo. L’amicizia non esiste, è una stupida illusione. Gli amici sono persone che vivono vicino a te in base a legami animaleschi e primitivi di interesse, l’interesse del benessere e quindi il non voler rimanere soli li spingono a stare con ve, a cercarti, quando poi non hanno più bisogno di te, ti gettano via, come un preservativo usato. Legge che vale per tutti, nessuno escluso: il miglior “amico” è lo sfigato, quello che avrò sempre bisogno di te e eche qu indi non ti lascerà mai. Infami, ignoranti, siete lontani da me, dalla mia ignoranza perversa, dalla mia sbagliata pazzia, dal mio distorto modo di vedere le cose. Finirò per odiarvi tutti. La felicità è un illusione nella maggior parte dei casi, un bene transitorio, ed io sono confuso, confuso più che mai nel mare della mia infinita sicurezza e razionalità. Io non sogno, voglio ma non ci riesco: è tutto terribilmente chiaro, io sono un diverso, sono una persona da escludere e cacciare ma badate, non voglio far del vittimismo: sono così e desidero esserlo, voglio, io mi definisco fieramente l’isolamento fatta a persona. Vivo nel dubbio degli altri, che più che dubbio è “Ma sei davvero così come sono certo che tu sia? Ti prego dimmi che non è così, dimostrami che sbaglio”, ma alla fine è come mi appare all’inizio, tragicamente surreale. Voglio fuggire via, via di nuovo, per poter gioire di nuovo dell’illusione di nuove persone e nuovi mondi, di quei pochi mesi prima di capire che sono tutti uguali, incompatibili con me. “E’ odio, un fatto di appartenenza”: sì, a me stesso ed entro i confini del mio unico Io. Odio l’ipocrisia unta con cui vi tingete la faccia e tentate di tingere la mia. Odio tutto questo, anche se sono certo che qualcuno c’è là fuori che è come me, ed è per questo che voglio lottare, per trovarlo. Saranno pochi, ma ci sono, ci siamo. Probabilmente è tutta un’illusione, anche l’amore che ora cerco agognandolo da mesi, sentendone la mancanza da quasi diciannove anni, è solo un insieme di reazioni emotivo-istintive dettate dall’istinto biologico di riproduzione, oltre il quale si affaccia il nuovo nulla, nulla cosmico e vuoto. Questa è un po’ la mia coscienza, che mi fa ridere e soffrire, guardare tutto il mondo dall’alto e ridere rendendomi conto di quanto siamo ridicoli, di quanto ora lui, ora lei lo sono e di quanto lo sono stato e lo sarò pure io. Ho tutti i mezzi del mondo per gridare questo mio dolore intestino ma c’è poco da fare, è un grido nel nulla, nel mare dove se avrò culo troverò to’, uno o due naufraghi come me che riconoscendolo mi aiuteranno a salvarmi dalla disperazione. E non è detto nemmeno questo. Ah, ah, aaah! Che fatica la vita.
E che angoscia il vedere che ogni gesto, ogni atto, ogni minimo respiro è fatto in funzione del nostro singolare benessere. Corteggiamo perchè vogliamo godere dell’amore e del sesso, ci impegnamo perchè vogliamo godere dei nostri risultati, ci lanciamo in progetti di risonanza sociale e mediatica solo per godere della nostra temporanea, effimera e quantomai relativa fama. Io spesso mi chiedo perchè non togliersi la vita. Perchè proseguire questa esistenza priva di senso logico, appurato che agiamo solo per noi stessi? Non ha senso continuare a soffrire e gioire, ad agire in funzione della gioia, a ricercare il godimento fine a se stesso. Nulla ha un senso in questa inutile vita perchè finalizzato a se stesso. E fa anche male, oh sì. Fa male rendersene conto, disilludersi PER L’ENNESIMA VOLTA di quella che io credevo realtà, ed invece era illusione. Pensavo che l’amicizia esistesse, ed invece no, è tutta una grandissima cagata. Se qualcuno fosse in grado di dimostrarmi il contrario, dio santo, ne sarei felice. E’ vero, io soffrirei alla perdita del mio unico amico, ma la mia vita poi continuerebbe nel nulla, bene o male. Qual’è allora il significato di tutto ciò? Stasera mi sta crollando il mondo hahaha! Ma dico, io vivo per il Progresso, per un futuro migliore per chi verrà dopo, vivo per la pace, per l’esplorazione di nuovi mondi, per nuove tecnologie che allunghino la vita, perchè vivere mi piace, è un gioco incredibilmente bello, è il massimo dei massimi, ha un senso di infinità che mi affascina più che qualsiasi altra cosa, tanto che voglio dominare questo infinito, voglio diventare qualcosa o qualcuno, voglio conoscere ed imparare, scoprire, avere rapporti umani, parlare, imparare… ma se il fine di questo è il mio benessere, il mio godimento spirituale, che senso ha? Non c’è coscienza comune, non riesco a dire che agisco per il “bene comune” perchè non è vero! Il comune non esiste, ci sono solo io e gli altri che sono in mia funzione. Ed il fallimento è un colpo di pistola all’orgoglio. Mi sento sporco, circondato da persone sporche, mi vergogno di conoscerle, di averle fatte entrare in casa mia. Mi vergogno che abbiano avuto rapporti di amicizia con me, che le abbia chiamate “amici”. Leggeranno queste righe e rideranno, forse, dio mio che schifo. Mi fa senso, no, ho fallito, devo cancellarle dalla mia vita! Sono state sbagliate, le persone sbagliate.
Ma che senso ha tutto questo, eliminare le persone, sceglierle, goderne e farle godere delle gioie dell’amicizia e dell’amore, se poi alla fine tutto si risolve ad un individualismo triste, freddo, tetro, scarno, monocromatico? Mi spaventa, io non ho equilibrio, non capisco me stesso, sono nel panico spirituale per questo dilemma. Cerco un centro di gravità permanente, ma non esiste ziocan! Ah, la morte, la morte è la soluzione alla fine. Dal nulla sono venuto, al nulla tornerò. La razionalità porta al paradosso di sofferenze, grida e languori per questa chiarezza che non lascia possibilità di contraddittorio, non lascia semplicemente speranza. Non mi capisco, non so dove andare. E’ il male, questa situazione è il male. Che stronza!
No. devo vederla da questo punto di vista: la vita è un mistero, ma un significato ce lo deve avere sicuramente, altrimenti non esisterebbe. Io nel mio piccolo contribuirò alla sua scoperta, e nella vita devo pormi due obiettivi, che poi alla fine sono uno solo. Il primo è gioire della vita, e so come farlo: scoprendo il mondo e chi lo abita, studiando e scoprendo la natura, aiutando il prossimo, arricchendo continuamente la mia cultura (nel modo più disordinato possibile, come sempre), infiammando il mio orgoglio giornalmente (è lui il mio motore e la mia benzina), amando una persona. Il secondo è agire per il Progresso, avendo coscienza di aver creato sapere per l’Umanità: il fare qualcosa di utile perchè il progresso si attui, ed averne chiara coscienza, razionalmente. Ecco la mia vita, eccola lì. Bene, non importa cosa fare di preciso dunque, basta raggiungere questi obbiettivi: ora sono tranquillo, non ho timore dell’università, per nulla. Ormai è chiaro, l’università sarà la porta per nuove persone, nuovi amici, amori, progetti: sarà il teatro della mia quarta vita sociale (l’asilo in Altipiano, le scuole nel paesotto, le superiori in città, e l’università nella grande città). Una nuova fase, un nuovo mondo, nuova vita. E così si vedrà, la vita continuerà. Poi voglio una Trabant 601, con l’etichetta bianca con scritto DDR cerchiato, gli Inti, i CCCP, i 99 o soprattutto gli Area dentro, a manego, ed una bandiera rossa sul cruscotto posteriore, e la macchina che si allontana lenta nel fumo bianco dello scoppiettante motore due tempi… io alla guida, e magari una bella ragazza (una compagna! Hahaha) a fianco, una persona da amare davvero, con cui condividere tutto, non per se stessi, ma per gli altri, distaccandosi dall’egoismo primitivo che vedo oggi, qui, ora, per andare verso un nuovo stadio evolutivo della persona, verso l’Uomo Nuovo, il cui spirito è più basato sul Noi che sull’Io, sulla comunità e sulla collaborazione che sull’egoismo miope ed animale. W il futuro (e l’alcool che ho in corpo, anche se è pochissimo e non bastevole per giustificare queste parole)
00:07
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Ventesimo post

02.11.2014 10:48

IN COSA TROVIAMO LA VOGLIA DI VIVERE (rispettivamente, ognuno di noi)

Dopo una settimana di discussioni ho riflettuto più a fondo sulla mia risposta, e alla fine sono arrivato alla conclusione che, analizzando la mia vita fino ad ora da un punto di vista globale, ho trovato la voglia di vivere in un unico sentimento: la rabbia.
Sin da bambino, soprattutto per l’influenza materna nella mia educazione, sono cresciuto come minoranza, tendenzialmente escluso: parlo sia dell’ambito sociale (un bambino parolaio che faceva ragionamenti diversi dai suoi coetanei, unico con dei genitori laureati in un paese bigotto ed ignorante) che dell’ambito “politico-filosofico” (una famiglia tendenzialmente laica alle spalle, in un mare di miope fervenza religiosa catapultata verso un ottuso berlusconismo passionale). Questa mia esclusione ideologica, molto forte nell’infanzia mentre più ipocritamente mascherata nelle scuole medie (e in minor parte nelle superiori) mi ha portato a sviluppare forte rabbia per quelle che mi era stato insegnato vedere, e che io vedevo come ingiustizie: rabbia per un’esclusione non giustificata e non comprensibile in tenera età, rabbia nel vedere, man mano che crescevo, come le cose che mi venivano insegnate non corrispondessero alla realtà, come i miei fortissimi ideali di Giustizia e Libertà fossero disattesi dalla società. Di qui il sentimento di rabbia, inizialmente fine a se stesso e solo dopo, molto dopo, veicolato verso l’associazionismo in un tentativo di cambiamento dellpo status sociale; esso e solo esso mi ha dato e mi dà la voglia di vivere, perchè in esso trovo energia e non resa, potenziale e non rassegnazione. Probabilmente sono fortunato, perchè non saprei giustificare il motivo per il quale provo rabbia e non rassegnazione, insomma il perchè ringhio e stringo i pugni invece che accasciarmi a terra e guardare la vita che scorre davanti a me: ho avuto un periodo nell’adolescenza in cui tendevo a quest’ultimo sentimento, ma è stato circoscritto ad alcuni anni, per poi svanire e ritornare puramente rabbia. Oltretutto chi mi conosce, come i miei genitori, mi ha spesso definito come “una persona che aggredisce il mondo”. Altro non saprei dire, questo -in un tentativo di autoanalisi forse non manco di superbia- è quel che mi rendo conto di essere, e che auspico di rimanere.
Dato che la discussione questa settimana è andata sfociando in un generico tema “in cosa l’Uomo trova la voglia di vivere”, non ho potuto non riflettervi pure io, e non ho potuto non tentare di formulare qualche ipotesi (anche se temo sarà molto meno fondata e filosoficamente argomentata di quelle di altri di voi). Dunque, partendo dalla prima ipotesi del “troviamo la voglia di vivere nell’istinto di autoconservazione”: non ha senso, non è un sinonimo? Significa affermare che “il trovare la voglia di vivere”, dunque la negazione del desiderio di morire, sta nell’autoconservazione, ovvero nel desiderio di non morire. Se cerchiamo “ciò che ci spinge a vivere” come facciamo a rispondere con “ciò che ci spinge a vivere è il principio stesso della spinta verso la vita”? Non è una risposta, a parer mio. Secondo me invece, dovremmo considerarci parte di un universo in espansione (quale siamo). Se consideriamo l’universo che si espande nello spazio e nel tempo, un po’ come fosse un fungo di un’esplosione atomica, mano a mano che si ingrandisce si sviluppano ammassi e galassie, stelle e pianeti, e all’interno di alcuni pianeti, come la terra, si sviluppa la vita, e la vita scesce e si evolve nello spazio (da un’unica cellula alla natura odierna) e nel tempo, esattamente come l’universo. Dunque la nostra esistenza, da questo punto di vista, sarebbe il risultato dell “evoluzione” dell’universo nel suo principio madre di espansione “spazio-temporal-evolutiva”. Noi però siamo esseri pensanti, diversi dagli animali (o comunque animali particolarmente svilupati) che hanno il pensiero e l’hanno messo in pratica per mutare il pianeta in cui si trovano, riuscendo a fare cose che altri animali, con altre abilità che l’uomo non ha, non sono riusciti a fare .Il pesiero ci porterebbe a chiederci il motivo della nostra esistenza (anche se ora mi viene il dubbio che tale pensiero non sia proprio anche degli animali ma essi non lo sappiano esprimere), ed il motivo io lo ricondurrei al principio madre, il principio che ci ha permesso di divenire umanità partendo da un’unica cellula: l’espansione-sviluppo, insomma il concetto (anche idealista) di un’esistenza in progressione, in continuo sviluppo, in divenire. Tutti ne siamo partecipi, senza distinzioni: contribuisce allo sviluppo un barbone come uno scenziato di fama internazionale, contribuisce allo sviluppo un distruttore come un creatore, chiunque contribuisce, poichè fa parte di un’unica catena interconnessa di persone che ne fanno la società e, a livello più alto, l’umanità. Dunque anche se il singolo pensa dentro se stesso di essere inutile, o se apparentemente non è nulla per la società, o se decide paradossalmente di togliersi la vita, in una “negazione estrema della propria essenza umana” (oppure, secondo me, nella massima espressione della propria libertà -ho scoperto l’altro giorno che anche Seneca la pensa come me-), è comunque artefice dello sviluppo. Anche un aborto lo è, anche un animale che attraversa la strada e viene investito: tutto ciò che accade contribuisce a fare conoscenza per l’uomo, e quindi sviluppo, ogni esperienza diviene sapere e quindi conoscenza, in un unica grande casa del sapere detta Umanità.
Che sarà il futuro? Al momento non sappiamo come finirà -o com continuerà- l’universo, non sappiamo cosa c’era prima e non sappiamo nemmeno cosa c’è “al di fuori” di esso. Il dubbio attanaglia ed angoscia l’uomo dalla sua origine, tanto che sin dalla preistoria è stato portato, spinto da un panico mortale, a creare delle risposte inventate per portare pace alla sua anima: ha inventato la religione, per esempio. Io personalmente credo nella scienza, poichè essa è l’unica che mi sa dare certezze concrete, tangibili, materiali, e se ancora non sa rispondere ad alcune domande, in futuro lo farà, perchè essa è prodotto e parte della conoscenza, e la conoscenza è in continuo sviluppo nello spazio e nel tempo. Se la Terra finirà, forse l’uomo emigrerà in altri pianeti ed in altre galassie (non è un caso che la fantascienza abbia avuto ed abbia un tale successo, è espressione di un’essenza basilare dell’uomo: lo spostamento, l’esplorazione, la scoperta —> il divenire), io nel mio piccolo (molto piccolo) contribuisco che ciò avvenga. Nella mia vita sicuramente farò qualcosa, anche la minima cosa, per portare un cambiamento al mondo, ed in questo senso io lo aiuto a crescere: posso essere un ricercatore, come posso essere un barbone che caga per terra, apporterò mutamenti diretti o indiretti alla conoscenza (il barbone caga in mezzo alla strada–> la società comprende che ciò è sbagliato ed instituisce case di accoglienza, per esempio). Altro non saprei dire, io la vedrei così, mi baso sulla scienza per argomentare ma molto di quel che è scritto è privo di basi (forse qualche allusione filosofica può esserci, ma non so quale). Prego, commentate!

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Diciannovesimo post

16.10.2014 00:15

L’arte – dal gruppo facebook

Speravate di esservela svignata, già vi stupivate dello scorrere dei giorni, pensando che il Triumviro bigobbe scemo non vi colpisse con la sua infinita prolissi, pensavate oh voi, poveri ingenui, di sfuggire ai miei post chilometrici? Vi sbagliavate! Muahahaha
Dunque, io parlando dell’arte vorrei dirvi come la mia mente malata la vede, e poi che futuro può avere secondo me.
Io penso che sostanzialmente “arte” possa essere considerata qualsiasi sorta di espressione dell’Io presente in un uomo. Secondo me arte può essere un dipinto dove un pittore vuole esprimere qualcosa, vuole lasciare un messaggio, può essere un hobby, un lavoro, una qualsiasi azione dove l’agente intenda inserire una parte di se dentro di essa. Non a caso è usato nel gergo comune il detto “l’arte del”, che io solitamente interpreto in questo modo, per esempio “L’arte del lucidare un tavolo” oppure “L’arte di fumare la pipa”, o ancora “L’arte della scrittura”: azioni, lavori, hobby, chiamateli come volete, per me divengono arte quando ci si vuole mettere una parte di se. Tenderei a definire questa parte “emotiva”, nel senso di qualcosa di spirituale, che includa un trasporto intimo, un profondo piacere per ciò che si fa ed una particolare cura affettiva per l’opera che si crea. L’opera d’arte è per me il frutto di un amore, l’amore per essa stessa ed il messaggio che vuole comunicare. Amore, passione, affetto, ecco.
In questo modo giustificherei a me stesso la presenza di vari tipi e forme di arte, spesso di difficile comprensione, a volte dal significato oscuro o talvolta “comunemente apprezzate e considerate come tali”. Ma questo, secondo me, perchè l’arte in se è espressione dell’anima dell’artista, una cosa molto personale e particolare, una cosa unica. Ed allora subito mi dico: “ecco perchè l’arte colpisce, a volte, il fruitore!”: è amore. Traendo spunto dal post di Fabio, che proponeva un’opera abbastanza singolare e difficile da comprendere, questa è la mia risposta: solo chi riesce a leggere il messaggio che l’artista vuole mandare può apprezzare davvero l’opera in se. L’opera, espressione dell’anima, è apprezzata da chi trova in quell’anima un qualcosa di compatibile a se, un qualcosa di proprio, che combacia perfettamente con il codice del proprio spirito. E’ come se due persone, l’artista ed il fruitore, fossero due amanti, solo che usano come mezzo di comunicazione qualcosa di non convenzionale, di singolare, unico direi, quasi a voler criptare un messaggio preciso perchè nessuno se non loro due possano afferrarlo. L’arte, quindi, l’arte-animo è qualcosa che ci prende dentro, nel profondo, che ci fa innamorare e ci distacca da qualsiasi altra cosa: amare l’opera d’arte è un sentimento passionale, non descrivibile ne tantomeno giustificabile razionalmente. Ecco perchè dico che è, in una parola, l’amore.
E’ forse un caso se una coppia talvolta tra le cose che la accomuna ha gli stessi gusti musicali, o gli stessi interessi per qualche genere o scrittore particolare? E’ forse un caso se quando troviamo qualcuno che ama quanto noi una band, o è appassionato come noi di uno sport, o ha letto proprio gli stessi libri che abbiamo letto noi, ci sentiamo felici nella consapevolezza di aver trovato un filo sottile che collega il nostro cuore al suo? Secondo me è perchè, rispecchiandoci nelle stesse espressioni di un’animo (quello dell’artista), ci rendiamo conto di essere affini, vicini, di amarci, in un certo senso.
Io insomma dopo una giornata di meditazioni sono arrivato a questa conclusione, che l’opera d’arte è un tramite per le nostre emozioni più profonde, una chiave per pochi cuori simili fra loro: ecco perchè è così odiata e così amata, vivendo in un costante eccesso (positivo o negativo che sia).
C’è una domanda che sorge spontanea: come mai alcune arti sono più popolari, mentre altre no? Come mai io posso adorare i Jethro Tull, o emozionarmi profondamente per una canzone di Claudio Lolli rimanendo un caso raro, mentre gli amanti dei Nirvana come degli One Direction sono molti, molti di più?
Azzardo un ipotesi, prendendomi tutte le responsabilità di un’eventuale e probabile smentita da parte vostra: forse il nostro animo è come una chitarra (classica, sia chiaro ), con tante tante corde. Alcune corde sono più diffuse, altre un po’ più rare e diversificate. Vi sono allora artisti che nel loro donarci parte del loro animo sottoforma di opera pizzicano delle corde molto diffuse, ed ecco che queste vengono subito riconosciute come “affini” dalle moltissime persone che le hanno. Altri artisti invece pizzicano corde meno diffuse, più rare se vogliamo, ma non per questo meno interessanti: saranno allora pochissimi a riconoscerle come proprie, mentre buona parte degli altri fruitori dell’opera non le considererà parte di loro, non avendole.
Posto che tutte le corde sono di egual valore, io tenderei a giustificare questo squilibrio nell’arte in questo modo (ma sarei anche curioso di essere smentito miseramente)
Ultima cosa, quindi: quale sarà il futuro dell’arte? L’arte avrà sempre futuro, finchè l’umanità continuerà ad esistere. L’arte è un mezzo di comunicazione dell’anima, è uno dei metodi più diretti per gridare al mondo “Hei, io ho queste corde! C’è qualcuno che le ama come me?”, ed è per questo, secondo me, che essa è così diffusa. Perchè sostanzialmente noi, nella nostra vita, andiamo alla ricerca di un altra persona che ci possa stare a fianco, accompagnandoci lungo il cammino della vita, e l’arte è il primario strumento per trovarla, forse.
Io sono arrivato a queste conclusioni pensando a me: a me piacciono tantissime cose, e le faccio perchè sto bene nel farle, e cerco di coltivarle il più possibile sperando di trovare qualcuno che le ami come me, perchè allora avrò trovato una persona con cui vivere assieme, non importa quando o per quanto tempo!
(PS: ma quindi la mia passione per la politica? La mia propensione per le ideologie sinistroidi? Il mio amare la scrittura? Lo sport come unica religione (oltre che fonte primaria di ricoveri in pronto soccorso)? Tuto pa’ catarme na tosa??? Ecco, con questo tema ho fatto nascere nuovi dilemmi, che mi frulleranno in testa per giorni e giorni! Grazie a chi ha votato, eh!!! … )

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Diciottesimo post

12.10.2014, 19:58

Ci sono tante cose che (mi) fanno riflettere, molto, troppo, ed in generale sfogando la mia logorroica prolissità, ma alcune sono davvero forti. Per esempio, quanto noi ci basiamo sull’apparenza delle cose e quanto di conseguenza siamo ipocriti con gli altri e con noi stessi.
Mi rendo conto che inconsciamente noi lavoriamo solo di stereotipi, grazie ai quali sappiamo come approcciarsi alla vita: ogni cosa percepita dai nostri sensi è come un segnale stradale, un preciso comando che ordina al nostro spirito di agire in un tal modo data la situazione. Luoghi, circostanze, gruppi, singole persone, ci basiamo sull’impatto iniziale impostiamo noi stessi per un determinato approccio, il tutto per semplicità, per tranquillità personale. E se il nostro istinto ci sconsiglia di entrare in contatto con determinati ambienti o persone, ecco che noi le evitiamo, pensando di non esserne compatibili. A volte l’istinto è ragionevole, altre volte si sbaglia, ed è questo che mi colpisce. Quando troviamo un ambiente o una persona che riteniamo a noi “compatibile”, ecco che facciamo i passi successivi, e ci avviciniamo ad essi: poi magari li conosciamo meglio, scopriamo se il nostro istinto ci aveva guidato bene o male, e a volte abbiamo lo stupore di scoprire che quell’impressione iniziale era sbagliata, almeno in parte. Che facciamo dunque? Spesso, anzi quasi sempre, ci allontaniamo come se niente fosse, pensando che tanto tutto può trnare come poco prima. Ci diciamo “Oh, ho sbagliato, ma basta girare le lancette dell’orologio ed è tutto a posto”. Ed ipocritamente ci slacciamo da quelle entità a cui ci eravamo legati, ci scolliamo da quelle persone a cui, per poco o molto tempo, ci eravamo appiccicati, e facciamo finta, ingannando noi stessi, che sia “tutto come prima”. Per me, queste dinamiche quotidiane sono l’espressione dei lati più disgustosi dell’uomo, il lato inanimato. Non si è animali in questo, si è apatici, totalmente insensibili, e profondamente egoisti oltre che superbi.
Non si è animali perchè questi atteggiamenti non appartengono all’animale, l’animale ha conflitti interiori più semplici dei nostri, ma conosce l’affetto e non lo tradisce mai. Perchè nell’animale vi è l’ingenuità di un bambino, ed il tradimento non esiste.
Si è prima di tutto apatici perchè si ignora la traccia lasciata da noi durante il nostro errore, si finge che non sia mai esistita e si cammina via, senza voltarsi indietro per vedere se abbiamo lasciato qualcosa di rotto.
Per lo stesso motivo direi che siamo insensibili, noi che tagliamo i nostri recettori sensoriali delle emozioni senza preoccuparci degli altri.
Siamo dunque egoisti, poichè nel nostro agir pensiamo alla salvaguardia del nostro io, di noi stessi, del “mio benessere” perchè, sia chiaro, prima ci siamo noi, poi gli altri.
Superbi alla fine, perchè nella nostra mania di grandezza siamo certi (e ribadisco, abbiamo la certezza assoluta) che quel che facciamo è giusto, assolutamente corretto, è indubbiamente la via vera e non v’è nulla di falso, nemmeno la minima macchietta di sporcizia sul candido lenzuolo della nostra coscienza. La ragione è dalla nostra parte.
Cose che, se penso a me, mi rattristo a pensarle, perchè so di aver sbagliato molte volte, affidandomi al mio istinto ma, soprattutto, fregandomene del mondo e degli altri, come nulla fosse, anzi a volte con una certa soddisfazione, quel ghigno un po’ malvagio di chi sa che l’ha messa in culo agli altri. E quando le vedo su di me, beh è la rabbia, la rabbia per una società che non mi permette di essere ciò che desidero. perchè se sono quel che voglio essere, ci sarà qualcuno che mi considererà un secchioncello, qualcuno che mi vedrà come un hipster, qualcuno che mi etichetterà come un drogato, chi mi additerà come un comunista, per alcuni sarò una specie di hippe alternativo mentre per altri un banale moccioso con tanta superbia quanta confusione in testa. Ah già, dimenticavo: in genere, un fallito. Tutto questo per i nostri stereotipi, dettati da una società bigotta e schierata (“non conta da quale parte, quel che conta è essere di parte”) che non vuole nemmeno andare “oltre”, ma preferisce fermarsi alle apparenze. Come io, io che non sono un po’ niente di quello che posso sembrare, ma posso essere anche un po’ tutto, così gli altri, che possono essere quel che credo ma che magari saranno altro, forse bello forse no. Non lo sapremo mai, perchè abbiamo paura di saperlo. E’ troppo spaventoso fare passi ad occhi chiusi, andare oltre le apparenze, superare gli stereotipi e “rischiare” di cadere dove non saremmo voluti cadere. No, è più comodo girare i tacchi e sgambettare via, cambiando argomento ai nostri pensieri e facendo come se nulla fosse avvenuto, come se fossimo fermi a due minuti prima. Solo che, così, non andremo mai avanti nel tempo, nè nella vita.

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Diciassettesimo post

08/10/2014, 14.12

Tornato a casa ecco la sorpresa che mi attende: il nuovo cellulare. Ordinato dal belgio, una marca cinese per spendere poco ed avere moltissimo, quasi tre settimane di attesa ed ora eccolo qua, un nuovo fiammante thl. Solo che non sono felice, anzi, ho un piccolo groppo in gola.
Nostalgia? Forse un po’. Ma è il senso di sconfitta a fare il grosso.
Ho resistito 8 anni al conformismo di questa società che deve correre, sempre e comunque, i cui tempi sono ristrettissimi, la cui comunicazione è capillare ed istantanea, con una velocità pari alla sua ipocrisia. 8 anni con un vecchio cellulare, il Sony Ericsson Z32Oi, uno scricciolo rosso che stava ovunque, che all’inizio, da bambino delle medie, ciravo maniacalmente per paura di rigarlo, e che sono passato ad usare come pallone da calcio man mano che crescevo (era, ovviamente, indistruttibile). Già l’usare il passato mi rattrista, il fatto che ormai sono le sue ultime ore di utilizzo. Mi ha accompagnato sempre ed ovunque, per comunicare con la mamma ed il papà, la nonna che chiamava sempre quando nessuno rispondeva a casa, i compagni e gli amici, le ragazze. Lo so usare a memoria, la mattina spengo la sveglia senza accorgermene, scrivo i messaggi già sapendo quando affidarmi al dizionario ridottissimo del T9 e quando comporre da solo la parola. So la rabbia del pazientare quando non ha campo (sempre), di quando attendere lunghissimi secondi la scritta “Parola non presente nel dizionario”, di quando dover cancellare tutti i messaggi perchè ci sono “Messaggi in attesa, memoria del telefono piena”. Ero (anzi, sono, ancora per poco) una specie di eremita della tecnologia, fermo nel passato, io contro tutto e tutti. Non ho mai voluto accettare la tecnologia che mi imponeva passi avanti: a facebook cedetti solo a metà della terza superiore, ora tocca al telefono, ormai la mia ultima bandiera, il mio ultimo gesto di ribellione, l’ultimo grido contro qualcosa che a me non va e che non voglio accettare. Perchè sono arrivato alla conformazione totale? Scelte obbligatorie. Per fare ciò cheamo devo stare al passo con gli altri, per stare al passo con gli altri devo correre come loro, una corsa sempre più veloce, sino al suicidio psichico. Passare avanti, aggiornarsi, creare sempre più un alter-ego sociale nella rete: ha senso tutto ciò? Per me no. Nel cambiare telefono io perdo un pezzo del mio essere Uomo, con questo strumento parlerò ancora meno di prima e mi nasconderò sempre più dietro uno schermo, una foto, una frase ben studiata prima di essere scritta. Il formale e l’informale, i due mondi in cui ogniuno di noi vive in questo cazzo di pianeta, si stanno fondendo in un unico osceno agglomerato di merda sociale, e la cosa è angosciante. Me ne rendo conto in questi momenti. Un tempo o ci si parlava, o si parlava al telefono, oppure si scriveva una lettera, ma erano due mondo distanti: dietro la scrittura della lettera vi erano tempi lunghissimi, studio delle parole, della grafia, dell’impaginazione. Se si riceveva una lettera, si sapeva che chi l’aveva scritta aveva dedicato una buona parte del Suo Tempo per te, che ti aveva fatto un grande dono: si era donato. E dietro alle sue parole c’era tutta la sua abilità e la sua intelligenza, tutta l’essenza umana di una persona si vedeva, si leggeva e si esprimeva nello studio di una lettera. Dall’altra parte, quando si incontrava una persona, per quanto la formalità potesse mascherare con il suo velo (o vello, dipende dalle quantità) di ipocrisia, non poteva nascondere l’essenza di una persona: la gestualità, il modo di parlare, le parole usate sono incontrovertibili prove dell’animo di chiunque. Come lo era parlare al telefono, sentire il tono di voce, la fretta o la calma nel parlare, nonchè tutto ciò che riguarda l’affascinante arte della parola, con i suoi tempi, i suoi accenti, il suo calore avvolgente o la sua freddezza, lama che affonda nell’animo o preziosa medicina riparatrice.
Tutto questo, lo vedo, lo sento, sta scomparendo. Scompare tutto, in un’unica mistura chiamata Chat. Tutto è nato dall’IRC, messaggistica istantanea ai tempi dell’intel 8086 e della guerra del Golfo, poi diventata di ultilizzo pubblico e mutata negli anni. Arrivò Windows Messanger nel 2001, con i primi “Amici”. E poi Skype, Facebook fino al nostro Whatsapp. Tutto verso una corsa all’immediatezza, per avere informazioni ora e subito, senza attese, in una simulazione di discorso tra due persone che non è altro che una triste caricatura delle nostre essenze. Perchè ci illudiamo che la chat ci doni il potere della sincerità, ma veniamo inevitabilmente gabbati da essa. Una chat non sarà mai un discorso diretto, ed un discorso diretto diverrà cosa rara, per poi scomparire del tutto nel futuro utopistico che la mia mente terrorizzata già prospetta: essa è espressione della finzione e dell’inganno, cardini di questa società squallida che io ripudio con la mia volontà ma nella quale ricado pesantemente, come un albero che viene tagliato, innanzi all’impossibilità di proseguire per la mia strada. Nella chat noi siamo enfatizzazione degli stereotipi che la società ci impone: li enfatizziamo, ma perchè? Per rendere più immediato il messaggio, perchè è l’immediatezza ciò che cerchiamo, il bruciare il tempo, le tappe, i limiti e i confini che Battisti sognava di distruggere ma che io vorrei mai come ora esistessero, e resistessero saldi. Perchè noi non “ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini”, noi ora siamo, contemporaneamente, lontanissimi e vicinissimi. E bruciamo i tempi. Perchè? Ci penso ed è triste. Quanto ci vuole perchè consideriamo una persona “nostro amico”? Pochi giorni di chat? E quanto ci voleva un tempo, quando la chat non esisteva se non quella vera, vocale, fisica, tastabile che si aveva solo quando si parlava davvero, guardandosi in faccia? E l’amore? Il magico “tempo del corteggiamento” è sparito: ora la virtualità è tutto, tutto rapido, immediato, ed allo stesso tempo freddo e distaccato. Se c’è qualcuno/a che ci interessa, noi ci parliamo in chat. Ma scusa, e i giochi di sguardi che c’erano prima di facebook? Le mezze parole, il cercare l’amato/a senza farsi vedere, il far intendere interesse con l’unica arma degli occhi prima di passare alle parole ed al fatidico “che fai sabato sera?”. Oggi è tutto virtualizzato, basta vedere qualche foto, chiedere l’amicizia e già si è conquistata la discussione, il “parlare” che non è parlare, e solo dopo, una volta aggirato con comodità l’ostacolo dell’imbarazzante discorso, si passa alle fasi successive. Il fascino del corteggiamento, che poi è uno (secondo me forse l’unico vero) strumento per vincere le inibizioni e la timidezza, tutto bruciato rapidamente dal trucchetto, l’asso nella manica quale è la chat. Io mi rendo conto che perdiamo giorno dopo giorno parti del nostro essere umani, parti del nostro avere un’anima, per diventare solo larvette, vermucoli che bruciano il sentimento lento, costruito, maturato come un frutto delizioso per scegliere l’immediatezza, per passare al rapido soddisfacimento dei bisogni più naturali ed animali, annientando la poesia che vi è in realtà dietro tutto. Come è possibile che in venticinque anni si sia arrivati a questo, e cosa ci aspetta allora? Mussolini -per quanto io sia infinitamente lontano dalle sue idee- incise indelebilmente sul palazzo della Civiltà Italiana all’EUR delle parole che mi sono rimaste impresse da quando le o lette, perchè in esse non v’è la retorica fascista, per quanto essa forse avesse desiderato esserci: è sola e pura verità. Le parole sono dedicate a noi Italiani: “UN POPOLO DI POETI DI ARTISTI DI EROI / DI SANTI DI PENSATORI DI SCIENZIATI / DI NAVIGATORI DI TRASMIGRATORI”. Questo siamo noi, prima di tutto: poeti, artisti ed eroi. Ma lo siamo ancora? Lo resteremo ancora? O forse questa tecnologia annienterà la nostra essenza umana, la nostra empatia, e ci riporterà ad uno stadio animale, di mere macchine lavoratrici con desideri effmeri ed immediati, non sporchi ma aridi, di un’aridità sconvolgente, di una povertà disarmante, di una schiettezza irriverente, di una disumanizzazione agghiacciante, alienante, che distrugge chi ancora crede nel mare di passioni che possono esistere dentro me, come in chiunque altro, passioni che io stesso condanno come fonte di dolori ma che allo stesso tempo esalto come unica vera essenza dell’umanità. A questo stiamo andando, la distruzione delle passioni, il soddisfacimento effimero dei bisogni.
Vivevamo sugli alberi, abbiamo imparato a camminare, ci siamo uniti, abbiamo costruito città e civiltà, abbiamo dominato il mondo e la Natura, siamo diventati egemoni di questo pianeta, verremo sopraffatti dalla Natura stessa, perderemo la nostra civiltà, dimenticheremo il piacere della passeggiata
torneremo animali.

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Sedicesimo post

7.10.2014

 

E’ un post sull’amore, in risposta ad una riflessione di un ragazzo a me sconosciuto. Le mie solite parole prive di fondamento 😉

ANALISI MALE DOCUMENTATA E TENDENTE A CONCLUSIONI AFFRETTATE SULL’AMORE

Il più grande mistero dopo Dio, la Massoneria, l’undici Settembre e Richard Benson

… e Gusi.

Volendo rispondere, o per lo meno ispirandomi all lunga ed accurata riflessione del collega pensante Rossetto (mai visto nè conosciuto, ma è anche questo il bello del web), pure io volevo fare una breve analisi dell’amore. Ho le mie idee, spesso ne ho parlato con gli amici perchè è un argomento molto interessante a mio avviso. Non ho grande esperienza in merito, sia chiaro, quindi le mie parole vanno prese con le pinze (sempre che si possa parlare di “esperienza d’amore”). Paragrafo pure io le mie riflessione, emulando la tecnica del Rossetto che trovo molto pratica sia per lo scrittore che per il lettore. Dunque:

I tipi di amore

L’ideale per me (il conflitto ragione-passione)

Il piacere dell’amore

Che si fa?

Ah, i punti 2,3,4 sono venuti fuori assieme perchè mi son fatto prendere la mano 🙂

//Perdono in anticipo i vari errori orotografici sicuramente presenti//

I TIPI DI AMORE

Sembrerebbe una domanda banale, ma invece è banale. Ciònonostante come primo punto la tratto. L’amore sostanzialmente è un sentimento di affetto verso qualcosa che ci provoca piacere, secondo me. Io ho amato delle ragazze, perchè provavo piacere nello stare in loro compagnia, nell’abbracciarle, nel parlare con loro. Ho amato ed amo la politica, perchè provo piacere nell’informarmi e nel conoscere la vita dello Stato e di tutta l’umanità. Amo la Storia, perchè trovo appassionante e piacevole conoscere il passato, con i suoi eventi ed i suoi personaggi, poichè essa è lo strumento fondamentale per formare me stesso. Amo l’informatica, perchè provo piacere nel districarmi attraverso la logica di cui è intrisa. Amo lo sport, è fonte di diverse gioie per me. Amo alcuni generi musicali. Amo molte cose, concrete e astratte, tutte accomunate dal denominatore comune di profondo piacere e soddisfazione nel praticarle, e per tutte loro sento che starei male se scomparissero dalla mia vita, sento che sarebbe molto difficle continuare a trovare un senso alla vita senza di esse.

Per me, questa è l’essenza dell’amore. Un concentrato di sensazioni più inerenti alla sfera passionale, ma gestite da una buona dose di razionalità. Vi è passione se leggo qualcosa di interessante anche se sono stanco, perchè io razionalmente dovrei riposarmi, ma quella spinta interiore che mi porta verso la fonte di soddisfazione interiore impedisce che ciò avvenga. E’ amore.

Quando mi riferisco all’amore verso una persona, quel che generalmente tento di distinguere è l’Amore dall’innamoramento, anche nel tentare di determinare un discrimine posso facilmente contraddirmi. Chiamo innamoramento l’essenza della passione, l’istinto che porta ad una ricerca cieca della fonte di piacere, ed il paragone più calzante mi sembra quello di un dipendente da tabacco. L’innamorarsi di una persona comporta la scomparsa dei sentimenti blandi, ed un accavallarsi di forti emozioni, positive e negative, che sopraffanno la ragione e tutte le abitudini, gli usi, tutto ciò che rientra nella nostra vita normale. L’innamoramento mi scombussola, mi porta in un altro pianeta, dove non valuto i rischi ed i pericoli, dove faccio tutto l’impossibile pur di avere quella fonte di piacere che ho conquistato. L’innamoramento è essenza dell’irrazionale, lo paragonerei all’ira per potenza (non a caso spesso sfocia in essa, vedi Catullo in primis per fare una citazione facile).

L’amore invece per me è quel sentimento più blando, dove ancora la ragione gioca un ruolo fondamentale. L’amore è il piacere di fare qualcosa, ma nei limiti della razionalità impostaci dai canoni di questa società. Posso amare una cosa ma farne a meno per doverso tempo, senza soffrirne esageratamente ma provando molto piacere nel praticarla, anche dopo lunghi periodi di astinenza. Posso amare la musica, astenermi dal suonare per mesi e mesi senza soffrirne eccessivamente ma provare molto piacere ogni volta che suono. E questo sentimento difficilmente scompare con il tempo, anzi in genere non scompare: quella che in italiano chiamiamo “una passione” è qualcosa di indelebile nel nostro spirito, a mio avviso.

Secondo me (e questo è il passaggio che generalmente mi viene criticato) questo che io chiamo amore si manifesta sia sottoforma di “passione” per le cose materiali ed immateriali, che sottoforma di “affetto” per le persone e gli animali. L’affetto per un parente è un sentimento molto forte, un amore verso una persona a cui teniamo molto, con cui amiamo passare il tempo anche se razionalmente non saremmo portati a farlo. Vi è secondo me una parte di passione in ciò, indubbiamente, è quella che si manifesta con la nostalgia per la lontananza da un caro; vi è comunque una parte magioritaria di razionalità, quella razionalità che ci consente di vivere normalmente la vita di tutti i giorni senza sostanziali cambiamenti, senza quindi subire quegli scombussolamenti che invce fanno parte dell’innamoramento. Ecco, per me questi sono due tipi di amore, diversi fra loro per le loro due nature, una preponderatamente passionale, l’altra preponderatamente razionale.

L’IDEALE PER ME

Valutando personalmente quale dovrebbe essere la via migliore per approcciarsi all’amore con un’altra persona, quell’amore stereotipato della nostra cultura, mi sono inevitabilmente imbattuto in centinaia di noti predecessori che hanno affrontato molto più accuratamente la situazione, ben prima di me (Lucrezio, Catullo, Ovidio fino ad arrivare a Leopardi e D’Annunzio):i cònonostante, la mia superbia e la mia autostima sono tali da permettermi di ignorare quasi totalmente questi giganti letterari e di passare indisturbato alla mia trattazione senza curarmene minimamente.

A mio parere per mantenere la felicità duratura un “uomo savio” dovrebbe rifuggire dall’amore passionale, e con molta determinazione perseguire la via dell’amore affettivo, molto meno allettante per vari motivi -molti dei quali ben espressi dal collega Rossetto- ma a mio parere l’unica vera via per una relazione duratura e con meno sofferenze possibili. L’ideale sarebbe non essere innamorati di una persona, ma provare un sincero forte affetto per essa, un affetto che ci portasse a frequentarla spesso, a provare piacere nello stare in sua compagnia, a farla divetare primaria compagnia di avventure e di vita, ma che non sfociasse nella passionalità tipica del comune stereotipo che ci viene comunemente venduto. Dovremmo avere la forza d’animo del resistere a tale tentazione, costruendo un edificio di convivenza su solidissime basi, quasi indistruttibili. Quella che io propongo, sostanzialmente, è una fortissima amicizia, un’amicizia sincera, indissolubile, colorata di affetto, baci e lunghi abbracci.

Conscio della triste prospettiva che spesso appare a chi ascolta le mie argomentazioni, io penso che questa sia la risposta alla domanda che l’uomo cerca nell’altro: stabilità. L’altro deve essere un punto di riferimento, una certezza, una casa sicura dove rifugiarsi qualsiasi cosa accada. L’altro è un fondamento per lo sviluppo del nostro essere in Terra, una chiave di volta per passare allo stadio successivo della nostra vita: quello della famiglia, dei figli e dei nipoti: la realizzazione biologica della nostra esistenza. Deve essere sinonimo di stabilità, un qualcosa che indubbiamente ci sarà sempre: e cos’è che indubbiamente c’è sempre per noi?

La madre, il padre, i fratelli e le sorelle: queste sono le persone su cui noi poggiamo le nostre fondamenta. E pertanto, i sentimenti che proviamo per loro devono essere gli stessi che dovremmo provare per il nostro partner, non vedo alternative. E vedo che la realtà è questa.

Ora però, l’obiezione madre delle obiezioni: perchè questo castramento sentimentale? Certo non tutti ragionano nel mio stesso modo.

Il motivo è semplice: solitamente è il caso a dettare le leggi. Nella nostra vita passiamo diversi amori (per lo meno è stato così dal ‘68 in poi), finchè non ne troviamo uno che dura. Ovvero, un amore che, una volta passata la fase di “droga”, di “allucinazione”, o comunque di quei mesi caratterizzati dalla passione, riesce a reggersi anche senza di essa quando in altre occasioni, sparita la passione, emergevano gli ostacoli che prima essa nascondeva, e la relazione finiva. Quando ci si rende conto che dopo la passione l’affetto rimane, e c’è intesa mediata dalla razionalità, e non artificiosamente creata dalla passione, allora ecco che si continua a stare assieme, anche senza un fuoco che ci scaldi dentro: basta una lieve fiammella blu a farci felici.

Talvolta anche questo si spegne però. Talvolta uno dei due viene travolto da una nuova passione, e vi cede, abbandonando un compagno di tanti anni (e di tanta vita). Perchè? Io credo che la risposta sia: perchè la passione è essenza di irrazionalità, e spinto dalla passione fa ciò che razionalmente non farebbe. Dunque anche la pace interiore guadagnata con anni ed anni più di colpo saltare come niente, basta solo che la passione prenda il sopravvento sull’animo.

“Ma una volta non succedeva!”. Già, perchè? Il collega già accennò a questi temi, a mio parere riconducibili ad un sostanziale soffocamento dei sentimenti per un prevalere di razionali bisogni vitali. Non ci si sposava per amore, ma per bisogni economici dettati dalla famiglia, anzi dalle famiglie. Non v’era spazio per l’iniziativa personale (in particolare per quella femminile) e dato che l’educazione e i modelli impartiti ai giovani erano diversi, nessuno si poneva mai seriamente il problema: si era sposati, così si rimaneva. Non va dimenticato che al componente sociale si affiancava una fortissima influenza religiosa che completava l’opera di oppressione dell’” iniziativa del cuore”, che non saprei chiamare altrimenti. Dal ‘68 in poi si è conosciuto il vero cambiamento, ma le nuove generazioni risentivano dell’educazione dei padri, ed il problema è stato marginalmente contenuto. Solo oggi, oggi che viviamo in sempre più ampie libertà, in una società fluida come Baumann descrive (e poi in Baumann il Rossetto), queste sono le nuove problematiche: l’anarchia sentimentale porta allo spaesamento ed ad una instabilità, instabilità di chi abituato a vivere nella libertà non accetta di dover piegare la testa ed accontentarsi. Quanto si presta allora la favola della lepre e della tartaruga? Calza a pennello, a mio avviso. Siamo tutte lepri, alla ricerca di piaceri effimeri ma fortissimi che riteniamo ci appartengano di diritto, cancelliamo dalla nostra mente l’idea di accontentarci, di “andare piano ma lontano”, e finiamo per lamentarci, per piangere su noi stessi quando ci troviamo, ormai avanti negli anni,a dover constatare che tutte quelle scelte coraggiose, quei piaceri immediati che abbiamo ricercato non ci hanno fruttato più niente. Noi eroinomani dei diritti sbandierati con fierezza senza comprenderli appieno. Che facciamo allora? A che serve una laurea palesemente inutile ma conseguita con la convinzione che “tutto si può fare, basta volerlo!”. Non è anch’essa frutto della passione, questa ostentata convinzione che nel nuovo mondo libero tutto sia possibile? Perchè non ci accontentiamo? Perchè non riusciamo a ragionare e a capire che la felicità, quella vera, la troveremo nelle piccole cose, nelle vie di mezzo, che non possiamo puntare a 100 credendo fermamente di raggiungerlo, ma che dobbiamo accettare il fatto che nel 99.9% dei casi arriveremo al massimo a 85, e saremo felici lo stesso. Saremmo felici lo stesso, di una felicità duratura, sicura, stabile. Ma non ce la facciamo. Cediamo al piacere immediato. Fumiamo avidamente sigarette di soddisfazione invece che assaporare una lenta pipa che però ricompenserà la nostra pazienza molto di più, donandoci sensazioni molto più ricche. E’ miopia mista a presunzione, voglia di rimanere bambini e non affrontare la realtà, incapacità di vedere orizzonti lontani.

Questo è ciò che penso.

Io stesso, poi, ricado nei più banali errori, senza seguire ciò che la mia ragione prescrive. Sono attirato dall’adorabile piacere che si prova nel praticare l’arte della seduzione, il corteggiamento, il lento corteggiamento che mette in campo tutte le nostre abilità è affascinante, è interessante, ritarda il piacere rendendolo incredibilmente più buono, e ci riempie di soddisfazione.

Il gioco della passione ci alletta, l’abile teatro con cui ci mostriamo all’altro come lui vorrebbe vederci è un’arte anch’essa, è anch’esso un gioco che ci piace, un gioco perverso e sadico, ma a cui ci prestiamo perchè il piacere forte ed immediato è meglio di quello lieve ma lungo e duraturo. Poi, se la sorte ci accoglie benevola, potremmo trovare anche il secondo, ma non è scontato. E generalemente non è così. Perchè allora ci facciamo del male, non sappiamo trovare la forza morale per scegliere la strada apparentemente migliore?

Non ne siamo capaci. Non possiamo esserne capaci, perchè la civiltà che ci ha cresciuto ci ha plasmati come voleva lei, ed ora noi, i suoi figli, il suo prodotto, dobbiamo operare come essa ci ha oridinato, eseguendo le operazini impartiteci, ragionando come ci ha insegnato. Ed il ribellarsi dalla nostra cultura è difficilissimo. Forse è impossibile.

Quindi che devo dire a Gusi? Che la sua affermazione secondo me è errata. Oggi non può esistere il matrimonio senza forza d’animo e fede nelle proprie idee. Perchè il matrimonio vuol dire rininciare a tantissime cose, fidandosi prima di tutto di se stessi e della propria scelta. Il matrimonio esiste solo, secondo me, con una concezione di amore, l’amore che provano i nostri nonni fra di loro, per noi difficile da recuperare. Siamo viziati dalla nostra società, e non ci libereremo di questi vizi, perchè siamo deboli.

La debolezza di chi non ha mai affrontato vere difficoltà.

FINE XD

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Quindicesimo post

26.08.2014   01:14

LA BELLEZZA DEL SONNO CHE VIENE

Dopo una lunga giornata, che può essere stata entusiasmante come noiosa, banale come originale, storicamente indimenticabile come memorabilmente disastrosa, il tempo del sonno arriva, sempre ed inesorabile, a trascinarci a letto.
Il letto. Quel morbido giaciglio che banalmente disprezziamo per le sue scomodità da vecchi e che amiamo passionalmente da giovani, sia che rappresenti il tempio dell’eterno, pigro riposo di un ragazzo, che esprima esso stesso, in quanto strumento fondamentale, l’attrazione erotica delle prime esperienze d’Amore. Il letto morbido, accogliente, spazioso quando siamo soli, mai abbastanza stretto quando una dolce compagna ci fa sentire meno soli, immenso vuoto da colmare quando quello specchio dei nostri profondi recessi dell’anima scomparirà. Letto avvolgente, caldo di quel tiepido abbraccio che con foga cerchiamo in inverno, barricati sotto le pesanti coperte e rannicchiati per raggiungere quello stato di piacevolezza che è il riposo finale: l’epilogo di una giornata, il prologo di un nuovo dì.
Che succede però quando ci siamo finalmente stesi e sistemati? L’attesa del sonno è, almeno per me, la più affascinante delle magie, perchè è il momento unicamente ed interamente dedicato al pensiero, direi quasi ufficiale. Con gli occhi aperti che guardano il soffitto, la mente si alza lenta da quello stanco corpo e vola, in alto, a ripercorrere il giorno, il passato, la propria storia in cerca di tutti gli indizi per proseguire il sentiero (non tracciato) della vita la mattina seguente. I flash che mi colpiscono sono le preoccupazioni ed i dubbi, i grovigli dello spirito che cerco di sbrogliare per trovarne il capo, ma che sempre con difficoltà raggiungo. Paure, dubbi sul da farsi, incertezze sul domani, ricordi del passato e forti emozioni che mi turbano, sicchè il cervello comincia lentamente a spegnersi e le risposte nascono pian piano da sola. E’ un lento scivolare inesorabile nel sonno, quel momento di qualche minuto in cui i pensieri vengono incanalati in un binario unico, il macchinista si alza e, dirigendosi verso le cabine con cuccette, attiva il pilota automatico: ecco che la magia ha inizio. Gli occhi si chiudono e i problemi che razionalmente non hanno soluzione, la trovano grazie al calcolo matematico e passionale della mente. Il sogno, tempio della felicità e del dolore, mi porta in alto, verso spazi sconosciuti, raggiungendo stelle dalle luci poetiche, pianeti incredibili, galassie, nuovi universi, in una rapida corsa verso la soluzione ai problemi dello spirito. E compaiono così gli spettri dei propri timori, seguiti dalle divinità dei nostri ideali che ci portano a situazioni surreali ma magnifiche, con poi unite le paure più profonde che mi fanno sudare freddo e svegliare sconvolto nella notte, agghiacciato dalla cruda realtà di quelle visioni spettrali che parevano quasi vere (e che forse lo erano?).
Non sono poche le soluzioni che ho trovato in sogno: dal banalmente incredibile “intuire in sogno come saltare con due ruote sulla bicicletta, e poi la mattina dopo riuscirci”, al raggiungimento dei concetti più complessi ma al contempo elementari che solo il sogno mi può palesare, come “il mio Amore ideale”, tanto da comprendere che la strada intrapresa nella vita reale non è quella corretta: è l’accettazione di una verità nascosta inconsciamente nel giorno, ma svelata brutalmente nella notte, l’istinto che si riprende il potere sulla ragione, la passione che massacra la pacatezza, la brutale violenza della chiarezza ineluttabile che sconquassa i piani prestabiliti che noi, poveri illusi superbi, credevamo di rendere possibili incatenando con disprezzo la nostra parte animale. Il sogno apre la mente, spaventa, terrorizza, incanta, eccita, innamora, lascia che la Verità ci si palesi, dandoci forse la via per la scoperta di un senso alla vita. Sogno malefico, sogno magico, sogno incantatore, birbante, furbo, scaltro, dolce amorevole, pietoso della nostra indegna esistenza. Sogno che mi prende e mi porta via, sogno che sei l’unico a darmi risposte certe, perchè non vedo altro a cui appigliarmi che a te. Tu che sei la luce, la strada, la via per il futuro, ma se nella tua stessa essenza v’è il mio “non  essere”, che fare allora? Se nel sonno io trovo la Verità assoluta, che senso ha apprenderla ed applicarla nella vita reale che ci riserva tante delusioni?  Perchè non allora un lungo sonno, un sogno infinito che ci riservasse solo certezze, con il bene ed il male che ci si presentano innanzi senza maschere o coperture ingannevoli? Perchè non così?
E se invece la nostra esistenza che reputiamo reale non fosse anch’essa un nostro sogno? Se tutto fosse la finzione di un’esistenza immaginaria, un Matrix terribilmente agghiacciante? Perchè non scegliere il sonno eterno, la pace e la Certezza del vero?
La mente vola verso possibilità che fanno tremare il corpo ma illuminano lo spirito, ma la carne è debole ed il terrore dell’ignoto ci fa rimanere entro i confini del gregge. Un senso di claustrofobia esistenziale ci soffoca, e nello spasmodico gesto di trovare una boccata d’aria, chiudiamo definitivamente gli occhi ed entriamo nella Realtà dei Sogni, lasciando per qualche ora il Mondo delle Falsità.
Ed un caldo senso di realizzazione ci pervade,
mentre con un sorriso dormiamo sereni
sognando la Morte.

02:08

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Quattordicesimo post

 

Giovedì 31.07.2014
Rabbia e Felicità, questo deve regnare nel cuore
La rabbia di chi non chiude mai del tutto gli occhi quando dorme, di chi non teme nulla perché non ha paura ed è sicuro di se stesso, e non accetta ingiustizie, soprusi, irregolarità che rovinano il bene degli altri. La rabbia che ti fa tenere sempre la testa alta, anche quando perdi, la rabbia che ti fa battere il pugno sul tavolo e richiama all’ordine chi vorrebbe fuggire verso l’anarchia per i propri squallidi interessi, scavalcando il debole, il triste, il lavoratore nelle miniere di felicità che in quel momento non trova niente lungo i cunicoli che ha scavato, lo stanco. La rabbia che ti fa fare a pugni con lo squallidume di questa società senza un cuore, perché se è vero che tu al minatore triste non potrai dare la pepita che cerca, l’evitare che venga truffato gli risparmierà dolori che non merita. La rabbia di chi sa qual’è la Verità, e per questo talvolta è anche un po’ malinconico, ma grazie a quel prezioso sapere può evitare di subire ingiustizie, e quando le vede attuate su gli altri, lotta fino alla fine, per senso di responsabilità.
La gioia invece, è la gioia di chi vince sul sopraffattore, la gioia di chi non ha motivo di piangere, la gioia di chi balla con i suoi simili senza pensare che la massa lo sta guardando sbigottita, senza paura di dare spettacoli tragicomici davanti ad una platea di giudici mediatici, senza il timore di essere deriso, canzonato o ridicolizzato, perché non dev’esserci vergogna nell’essere felici, in qualsiasi modo la felicità trovi modo di manifestarsi. Ed è la gioia di fare del bene per gli altri, il senso di Comunità, di lavorare non per se stessi, ma per Loro: Loro si prendono cura di te, tu invece devi prenderti cura di loro, e devi fare tutto il necessario per permettere a loro di essere felici. Ed ogni sorriso sul loro volto, sia per una tua pagliacciata o per una parola di conforto davanti ad una sconfitta, sarà un battito del tuo cuore, un fremito del corpo, un senso di realizzazione ed un sorriso anche sul tuo volto. Perchè la vita è bella, non solo perché sia piena di gioie e di bellezze (anche se spesso non vogliamo vederle), ma perché in ogni piccola caduta c’è una mano che ti rialza, ed ogni volta che ci rialziamo impariamo a non cadere più. Sarà un caso? No, perché queste sono le essenze di gioia, che io cerco banalmente di esprimere sotto forma di scritto, con risultati presumo deludenti, ma quel che importa è provarci, perché se un giorno dovesi ricadere in basso, beh allora basterà ricordarsi come ci si alza da terra e non si dovrà più aver paura. Un folle ballo, o l’unico ballo reale, chi può saperlo se non se stessi?
Gioia e Rabbia, esistenti solo se in simbiosi, perché la Gioia scompare quando davanti ai nostri occhi regna la sopraffazione, e la rassegnazione che fa capolino nel nostro animo presto ci succhia via la voglia di sorridere, spingendoci a camminare a testa bassa in silenzio, senza voglia di ballare più; e la Rabbia senza gioia diventa qualcosa di negativo, un’ombra nera digrignante che sputa contro tutti indistintamente, senza uno scopo benevolo ma solamente con lo spirito di vendetta verso chi ha la Gioia. La Rabbia senza un fine, non è nemmeno lodevole.
Cosa fare allora, per non perderle tutte e due? Non abbassare mai la testa se il male si presenta davanti ai nostri occhi con veemente potenza, perché ciò che sembra invincibile lo è solo se decidiamo noi che lo sia, ma alzarla, e tirare pugni contro il grande muro nero dell’ipocrisia, della falsità, del doppiogiochismo, dell’interesse personale, dello squallore e del grigiore: anche se un pugno in pancia non lascerà nemmeno un graffio, dentro sconquassa tutto l’organismo, ed è su questa convinzione che dobbiamo basarci. Perchè anche un sassolino può sconfiggere un gigante, e se non lo sconfigge lo indebolisce. E ricordare, sempre, che se chi cade per terra vede il suo vicino rialzarsi fieramente, con un sorriso innocente in volto, anche lui si rialzerà senza paura.
Poi non perdere la capacità di gioire della vita, qualsiasi sia la disgrazia che ci possa capitare, questo non deve abbatterci, nè spingerci a terra, ma soprattutto non deve toglierci la capacità di vedere il sole del mattino, di sentire il canto della natura, di farci coccolare dalla freschezza dell’onda, di annusare l’odore della pioggia, di gustare il sapore del frutto appena colto, e poi, di sentire lo stupendo calore di un abbraccio, quell’unione di affetto che scalda anche il più ghiacciato ed affranto dei cuori, il gesto universale più antico dell’umanità.
Non perdiamo mai queste capacità e vivremo la nostra Vita. Certo inciamperemo, piangeremo, soffriremo a volte, spesso o di rado non conta: ogni caduta ci insegnerà a camminare meglio, finché non rovineremo più a terra, e sorrideremo al mondo come mai prima di allora. Cosa importa come ci presentiamo agli altri, se come pazzi schizzati, ebbri di calma follia, banali conformisti, buffi alternativi, silenziosi squilibrati o misteriose sfingi dal fascino terribilmente attrattivo? Ciò che non dobbiamo perdere è la Grinta nello scalare la montagna e la Felicità di gustare il panorama dall’alto, alla fine anche dalla cima.
Felicità e Rabbia
il succo di un anima
la mia
12:03