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Trentatreesimo post

Mercoledì 20 Dicembre 2017, ore 00:55

E’ da qualche giorno che desidero scrivere, ma solo ora ne ho trovato il tempo, la forza e la voglia. Scrivo perchè è passato un mese da quando, con fatica e rassegnazione, avevo messo nero su bianco quello che sentivo, e quello che sapevo dentro di me sarebbe successo. Ho sbagliato, forse, a partire già convinto di quale sarebbe stato l’esito? Ho sbagliato, forse, ad agire in questo modo e a non tentare di giocare d’astuzia, per creare qualcosa che non c’è, per attizzare un fuoco che non è mai stato acceso? Forse sì. Ciò non toglie quel che è stato. E’ stato che, dentro di me, sapevo a cosa andavo in contro, e proprio sapendo qual’era la tortura che mi aspettava, ho deciso di optare per il male minore: aprirmi, subito, e parlare dicendo alla dolce diretta interessata cosa succedeva dentro di me, e quali erano i mari che il mio animo stava iniziando a solcare in quel momento. L’ho detto, con fatica e con dolore, quando mi sono reso conto che la mia sofferenza iniziava a farsi sentire davvero. La risposta è stata quella prevista, ovvero un ennesimo rifiuto. Più che un rifiuto, mi piace vederla come una constatazione: la constatazione che quella fiamma che arde dentro di me, non ardeva in lei. Non è difficile prevederlo: una fiamma si vede, produce luce che illumina i volti e soprattutto scalda, scalda gli animi ed i cuori: per tutti noi è facile percepirne o meno la presenza, mentre la cosa difficile è il riconoscimento, in tutta onestà, di questa constatazione. Non è dunque difficile riconoscere la presenza della fiamma, bensì accettarne la presenza o, nel caso in esame, la totale e brutale assenza. L’aggettivo brutale va aggiunto, sì, perchè di brutalità si tratta: quando una persona non prova nulla per te, non si rende nemmeno conto che i suoi atteggiamenti e le sue azioni hanno su di te qualcosa di enormemente potente e potenzialmente distruttivo. Non se ne rende conto, ed in buona fede se ne frega, continuando a comportarsi come desidera e perseverando lungo la sua strada, giusta o sbagliata che sia. E’ così che io, trovandomi ora da questo lato dello schieramento, mi rendo conto del male che ho fatto a chi mi stava un tempo vicino. Mi rendo conto, sì, di quanto male ho fatto a chi mi amava, quando me ne fregavo di lei e del suo animo in pena, e pensavo ad altre. Mi rendo conto, sì, del dolore che ho brutalmente inflitto quando sparivo senza preavviso per tempi lunghissimi, abbandonando al loro destino persone che in me riponevano stima e speranze. Mi rendo conto, sì, di quanto fa male amare una persona, ma il vedere che questa persona ama un altro, e che addirittura consuma in modo completo questo amore. Accade, ed è naturale che ciò avvenga, proprio perche noi per queste persone non contiamo nulla, perchè in loro noi non sprigioniamo nessuna fiamma: siamo solo delle figure di un presepe, dei personaggi secondari nel film della loro vita, che compaiono sporadicamente e spariscono in modo irrilevante ed evanescente con il tempo. Ma io, io che ora vi rifletto, mi chiedo quanto male abbia fatto e quanti dolori abbia procreato per ridurre alcune persone in stato di malessere molto peggiore a quello, presente seppur blando, del mio caso. Insorgono i sensi di colpa, i dubbi pesanti che non ti fanno dormire sonni sereni, ed i pensieri vagano impietosamente indietro nel tempo, navigando verso ciò che avevamo nascosto nelle nostre memorie, che avevamo cercato di eliminare ma che, inevitabilmente, era rimasto lì. Ma il male che soffro ora, quante e quanti l’ho imposto? Paura, paura a pensarci: ne stimo molto.
Oramai però, in tutta razionalità, è opportuno constatare la realtà dei fatti e scegliere che direzione prendere: non si può rimanere sulla porta di un uscio malfrequentato ed incerto, è necessario agire e proseguire il proprio cammino nonostante tutto; io, così, mi sono immaginato due piatti di bilancia sui quali fare un sano confronto. Sul primo piatto ho messo il bene che mi fa stare con la dolce diretta interessata, quanto sono felice quando le parlo, la vedo, la sento vicina a me: tutti elementi di piacere personale, che mi trasmettono grande serenità e sicurezza, facendomi sentire in un piccolo caldo iglù che mi protegge dal freddo del mondo che mi circonda, e con il quale mi posso liberamente aprire senza paura di essere tradito. O almeno, così credevo. Così credevo, sì, perchè poi sull’altro piatto della bilancia ho caricato tutto il resto: il male che mi fa quando quei brevi attimi di compagnia svaniscono, il costante malessere del sapere che quella fiamma non sarà mai accesa per illuminare il mio animo, le ferite aperte entro le quali il coltello dell’invidia e della competizione si rigirano e ampliano le piaghe già esistenti, per poi arrivare infine alla constatazione finale, quella che mi trapassa ogni volta, ovvero quella che la dolce diretta interessata una fiamma già la possiede, e già l’ha donata e la sta regolarmente donando con tutta se stessa ad un altro.
Un volta riempiti i piatti della bilancia, ho valutato accuratamente l’esito della pesata. Ho sperato che potesse raggiungere una sorta di equilibrio, almeno per non perdere tutta quella bellezza che in lei avevo trovato e che so, per certo, esserci ancora. Ho sperato che il pesantissimo secondo piatto potesse un po’ alleggerirsi nel tempo, ed ho atteso nel riserbo del mio dolore che tutto ciò accadesse: non sono stato fortunato, e nulla è avvenuto. Il cambiamento non c’è stato, ed il braccio dei dolori pesa sempre molto di più di quello delle soddisfazioni. Il braccio dei dolori continua a pesarmi ogni giorno che passa, ed io ogni giorno che passa aumento la mia paura, poichè non sarà nè il dolore cronico nè la repressione a permettermi di condurre una vita universitaria serena. La decisione è ormai chiara, l’unica cosa che manca è il coraggio della sua applicazione: l’abbandono.
L’abbandono della bilancia per soffifre di meno, per non rivedere più brutti ricordi, per andare avanti. Abbandono di una gemma rara e preziosa che però, con il suo segreto veleno, potrebbe portarmi in posti del mio spirito entro i quali non mi vorrei mai più riaddentrare: sono i mostri del dolore profondo, della perdita di peso, del malessere personale, dell’odio nei confronti degli alttri, della paura del dolore stesso. Mostri che non voglio rivedere, e che temo dovrò rivedere almeno di sbieco se le cose andranno per le lunghe. Inoltre, all’abbandono si aggiunge il malessere ed il dolore inflitti da me agli altri: cosa farà lei, lei che a così poco interesso in un senso, ma che così tanto mi desidera negli altri? Quanto sarà il male che anche io, con il mio atteggiamento, imporrò?
Ancora del dolore, ancora la difficoltà di dire addio ad una triste storia senza lieto fine, ancora del male che infliggo agli altri.
La stanchezza mi dice che il racconto finisce qui, l’anima mi dice che probabilmente sarà veritiero.

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Trentaduesimo post

Sabato 18 Novembre 2017, ore 00:26

Avevo iniziato qualche giorno fa a scrivere, poi non avevo terminato. Il succo del discorso è semplice, e lo riassumerò con il titolo:

CI RISIAMO

Eccomi, di nuovo qui. Di nuovo immerso nel dolore della desolazione interiore, con affanno cerco di non affogarvi dentro. Come sta andando la vita? No, non bene: mi ritrovo solo e per sempre solo, specchiandomi nel mio io, incapace di trovare qualcuno o qualcosa in grado di darmi una spinta, un motivo, una ragione per non abbattermi.
Guardo attorno a me, vedo rabbia e repressione, vedo retrocedere la cultura dei miei popoli verso un passato che speravo finisse per essere definitivamente sepolto
Oggi vivo nella società dell’odio.
Odio verso chi è più felice di noi, odio verso chi la pensa in modo contrario al nostro, odio verso ogni genere di diversità.
Oggi vivo nella società dell’egoismo.
Egoismo per il bene comune che vogliamo fare solo nostro, egoismo nel bene che vogliamo essere destinato solo a noi, e a nessun altro, egoismo nelle relazioni interpersonali, nel raggiungimento dei propri obiettivi e dei propri vantaggi.
Oggi vivo nella società dell’indifferenza.
Indifferenza nei confronti dei deboli e degli indifesi, indifferenza nei confronti di una democrazia che va svanendo a vantaggio della repressione, dell’autoritarismo, del potere economico. Indifferenza nei confronti del popolo africano mostruosamente massacrato come lo era centinaia di anni fa, di quello arabo stuprato dalle grandi potenze mondiali e sbeffeggiato dalla religione. Indifferenza nei sentimenti di chi ci circonda, di chi ci aiuta, di chi ci fa compagnia e di chi ci vuole bene.
Oggi vivo nella società del malessere,
un malessere che si deve vivere ma non si può né condividere né comunicare. Il malessere che deve essere nascosto, covato interiormente, camuffato dalla stanchezza e dallo stress. Ma non è stanchezza, lo so. È malessere esistenziale.
Il malessere di una società che mi continua a deludere.

Io non faccio parte di questo mondo, io in questo mondo non ci riesco a stare. Mi dà fastidio vedermi tradito, pugnalato alle spalle dalle persone nelle quali credevo, perchè queste poi, sotto sotto, mi vedono e mi vedranno sempre come uno qualunque, uno dei tanti, un fantoccio da sfruttare quando fa comodo e basta. E’ terribile affezionarsi alle persone. Terribile perchè poi ci stai male. Io alle persone mi lego, io anche se apparentemente sono strafottente ed egocentrico, anche se apparentemente disprezzo il prossimo, in realtà gli voglio un mondo di bene. Perchè io sì, io soffro quando sono solo, soffro quando mi rendo conto dell’infinita ed eterna solitudine nella quale mi trovo, soffro nel percepire le distanze fra me e gli altri, sì. Ma soffro tantissimo quando gli altri mi deludono, e questa sì, questa è una delle più grandi sofferenze. Sofferenze perchè si arriva in quel momento nel quale si crede di avere cose in comune, di potere sì, di potere davvero essere amici, di condividere il sentimento ed il pensiero che si vive. Di sapere che in una determinata situazione, una banale situazione, la si penserà esattamente come il proprio amico. Che bello. Se c’è qualcosa di bello, è senza dubbio questo: l’assonanza fra due persone, l’armonia dei pensieri e degli spiriti.
Ma no, non è così. Non è così perchè presto o tardi ci si accorge che tu, tu che in quella persona tanto ci speri e a cui tanto, tanto ci tieni, per lui non sei niente di particolare. Lo scopri spesso, lo scopri sempre, ed è solo un dolore, un dolore che ti fa capire, per l’ennesima volta, che sei solo. E’ male, è dolore, è tristezza. Una tristezza, questa, che può aumentare a dismisura se si aggiunge un altro fattore fondamentale, il fattore per eccellenza, quello che trasforma una cosa triste in una tragedia, in un coltello conficcato nello stomaco e nel cuore. Ebbene, il fattore fondamentale è quando questa delusione arriva da una ragazza. Una ragazza nella quale tu vedi il bello, vedi assonanza ed armonia di pensiero, un accordo musicale chiamato “lei” con la quale ti trovi bene nonostante tutto. Una ragazza nella quale inizi a sperarci, ma proprio in quel momento, nel momento nel quale inizia ad accendersi una piccola fiammella nel tuo cuore…ecco che allora un vento fortissimo la spegne. La spegne brutalmente, con cattiveria, rapidamente ed impetuosamente. La cosa triste e dolorosa è che quello spegnimento, l’annullamento di una fiammella che con tantissima fatica era stata accesa, è una grande delusione, e le delusioni, si sa, fan male.
Sono stufo di questo dolore, sono stufo di queste delusioni, sono stufo di questo arrancare lungo il sentiero della vita. Io in questo sentiero ci voglio camminare agilmente, se possibile vorrei correrci, vorrei far fatica ma percorrerlo al massimo delle mie capacità prestazionali: invece no. Invece, ci devo arrancare, strascicando i miei tracci e tenendomi con le mani le parti del mio corpo doloranti, leccandomi le ferite, aspettando che gli ematomi e le botte piano piano guariscano. Perchè? Perchè tutto questo? Perchè questi dolori? Per quale legge divina mi sono meritato questa terribile penitenza? Farà ridere a leggerlo, ma è così, perchè io sto male. Sto male in queste situazioni, nelle delusioni e nei tradimenti di spirito.
Fa male.
Il presente mi fa male, il vissuto mi fa male, gli scheletri nel mio piccolo armadio bruciano e mi fanno tremare. Scheletri di fiducie tradite, di aspettative disattese, di responsabilità abbandonate o prese sotto gamba. Scheletri di ruoli familiari e relazionari affrontati in modo immaturo e sbagliato. Scheletri di scorrettezze, di quel qualcosa che non ti fa stare sereno, che ti fa venire il brivido de “ma conosce quel mio passato?” “ma chi gli ha detto che…?”. Cosa c’è nel mio passato di legalmente e praticamente grave? Nulla. ma c’è qualcosa di brutto eticamente e moralmente parlando. A tanti questo non importa, a me importa tantissimo.

Mi merito questa situazione? Forse sì. Non lo so ma so solo che è dolore, che è sempre quel dolore che mi porto avanti da quando ho imparato a conoscerlo, da troppo tempo, tantissimo troppo tempo. Il dolore della solitudine, della delusione, del rifiuto, dell’emarginazione, dell’essere soli, soli sempre soli, soli nel proprio animo contorto, timido e massacrato dalla tristezza. Io spero che cambi perchè non ce la faccio più non posso bruciare così questi anni, non è giusto, non voglio continuare a soffrire o, nella migliore delle ipotesi, nascondere la mia sofferenza. Io voglio che la cosa cambi, che ce la faccia, che sia felice davvero e sempre, che trovi qualcuna che possa capire, con cui poter parlare.
Una persona con cui parlare di me, e a cui dare tutto di me.
Faccio fatica, sono triste, vedo le occasioni polverizzarsi l’una dopo l’altra. Ma ormai ho fatto la pelle dura: si andrà avanti, come sempre, cercando di coltivare quel piccolo orticello di speranza dentro di me, che nonostante tutto quello che è successo, continua a darmi i suoi frutti ed a tenermi a galla, senza che affoghi, qualunque cosa accada.
Così chiudo il breve messaggio, nella speranza di un futuro più bello, di una persona da amare, di qualche nuovo amico, vero.

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Trentunesimo post

24.12.2016    23:38

Un po’ che non scrivo. Ma è bastato un piccolo, banale film, per farmi tornare in mentre quel sentimento sopito, quasi ricacciato nel profondo dell’animo da tanto tempo. Senza di lui si vive bene, si vive meglio. Si vive. Ed era infatti da un bel po’ che non lo sentivo risorgere dalle profondità del petto, da quel posto strano, poco sopra lo stomaco, dal quale si alza e si stringe, lasciandoti senza fame, senza capacità di far niente. Senza forza di alzarti, senza possibilità di aprir bocca se non a stenti, e con quel groppo terribile in gola che ancor ora, ora che sto scrivendo, mi sento addosso. Ruoto la testa ed alzo il collo per levarmelo, ma lui non se ne va, resta lì, e ci sarà un perchè. Mi gratto la testa, ora senza i miei lunghi capelli, ma con qualche peletto che chiamo ancora, penosamente, criniera 🙂 Ormai lì è rimasto poco, ormai sta cadendo tutto, come era destino, o meglio, come era prevedibile, dopo tutto. Il groppo se ne sta andando, e trovo allora la lucidità per scrivere un po’. Che cos’è, questa cosa? Forse ho trovato. Perchè, a dire il vero, di ipotesi ne ho formulate tante, ma questa volta lui è tornato, dopo tanto tanto tempo, in un determinato momento, molto chiaro, molto limpido. Il che mi ha fatto -forse- capire che cos’è tutto questo. Fa male, sì, fa male. Fa male ma è questo, è proprio questo: è Goodbye Lenin.
Forse io ho questa, questa malattia: l’essere un anomalo, nato in un tempo che non è il suo, e condannato alla malinconia per qualcosa che sogno, che vedo come orizzonte di armonia, di correttezza, di equilibrio, ma al quale non mi sto avvicinando, ma mi sto al contrario allontanando, sempre di più, con tutto ciò che mi circonda. Forse io, come pochi altri rari esseri di questo strano posto chiamato non so cosa, sono un qualcosa che ama, che si emoziona, che sospira al sol pensare ad una società diversa, ad una società giusta, corretta, equilibrata dove il cittadino sia dentro la comunità, sia esso stesso la comunità in tutte le sue parti. Un mondo giusto, tranquillo, rilassato e senza preoccupazioni. Forse non un mondo ricco, non certo un modo agiato o degli eccessi, ma quel tranquillo mondo di un’altra epoca e di un altro tempo, dove si sorride per le piccole cose, dove si sospira per la banale bellezza del quotidiano, dove si rende poesia ogni cosa, la più semplice, anzi: dove non c’è la poesia come qualcosa di esterno alla quotidianità, ma è la quotidianità ad essere vissuta, in ogni suo instante, come poesia. Poesia, ispirazione, missione, vocazione: non dovere, che è una parola brutta, ma vocazione, che è invece elegante, leggiadra, e che rende l’idea di cos’è che io sogno, che bramo e che, ahimè, non potrò mai raggiungere nella mia vita. E’ quell’ideale di un mondo giusto, quell’ideale incarnato nella realtà che non smetterei mai di sognare, di pensare, di pianificare in ogni suo minimo dettaglio, ma che va a scontrarsi con la cruda e violenta realtà, la realtà del tempo in cui viviamo, una realtà di orrori e di sopraffazioni, di ingiustizia come legge universale, di conformismo, di consumismo, di emarginazione ed elitarismo. Realtà dove non conta la comunità, ma conta il singolo, contano i schei, poi i schei e poi ancora i schei, dove non c’è spazio e non c’è tempo per una passeggiata nel silenzio della natura, dove non si può ammirare l’immensità di una pianura dall’alto della cima senza frantumare quell’incanto con il click  di una foto, da postare su Face o da inviare al gruppo degli amici. Tutto quello che sogno e che raspo a mani nude, con così tanta violenza da rompermi le unghie, ebbene, tutto questo non c’è. E non ci sarà mai, più. Io, nel mio raspare e scavare a mani nude nella terra, mi guardo intonro e non vedo nessuno, mi sento terribilmente solo in questa mia ricerca disperata di un mondo che esisteva, una volta, ma oggi non esiste più,e domani nemmeno lo si ricorderà.  Siamo una specie in via d’estinzione, ed io che sono giovane, sono anomalo, sono una mosca bianca in mezzo a qualche vecchio moscone, qualche vecchio che il mondo l’ha visto, quello vero, ideale, e non l’ha dimenticato. Molti l’han dimenticato, tutti, e pensano solo ai schei, ma io non ce la faccio. Io vedo il passato, forse sbiadito e distorto, e me ne sono innamorato perdutamente. Questo passato, questo amore, non finisce, è duro a morire, non finirà mai. E’ amore, per forza di cose, questa incredibile tensione che mi spinge, anche dopo tanto tempo, anche dopo essermene forzatamente e violentemente allontanato, a tornare a commuovermi davanti a certe scene,a certe immagini, ad un mondo fantastico che non è mai esistito ma che forse, un giorno solo, in una piccola parte di questo pianeta, si è davvero realizzato in tutta la sua incredibile e meravigliosa perfezione.
Il groppo se n’è andato, ma io sono ancora qui. Ritornato sognatore di colpo, alla vigilia di natale, immagino cose che mai avrò, e se mai le avrò, immagino di trovare almeno una metà che come me condivida questa tensione verso il paradiso dell’anima. Non l’ho mai trovata, fino ad ora. Ho sempre incontrato soluzioni di ripiego, tappabuchi. Non ce la faccio ad avvicinarmi ad altro, ne sarei anche tentato, ma mi accorgo ogni giorno di quale sia l’abissale distanza tra me e il resto del mondo. Io lo so, questa per tutti è presunzione, lo so, questa per tutti è un’offesa alla loro persona. E’ sempre stata vista così, e sempre sarà vista così. Sempre sarà l’arrogante presuntuoso, il ragazzo con la puzza sotto il naso, capace di far niente ma con la velleità di capire tutto. Io, davvero, questo non lo sono. Io non voglio fare del male, a nessuno, mai. Io mai vorrei dare dispiaceri a chi mai ha fatto male a me, e mi dispiace davvero, davvero sentire sempre, percepire sempre che il mio essere, per gli altri, è arrogante, spocchioso e presuntuoso. Io jon voglio essere così, davvero mai vorrei esserlo, non ho motivi, Io non sono orgogliosamente diverso, guai! Io, io sento di esserlo. Io sento che, davvero, non ho nulla da spartire con voi. Io osservo tutto dai miei occhiali magici, e vedo un mondo distorto, con colori diversi, suoni, musiche, emozioni che voi, lo vedo, non condividete. le vostre gioie non sono le mie, e le mie emozioni non sono le vostre. A me addolora capirlo e vederlo, a voi infastidisce, e di questo mi rattristo, mi rattristo molto, perchè triste e dura è la vita dell’uomo solitario. La mia speranza è una, una sola, quella di trovarti, tu che sei la mia luna, tu che sogno da sempre. Tu, la lei che vede coi miei stessi occhi un mondo diverso, e che mi prenderai per mano e mi sceglierai come compagno di strada, lungo un sentiero di bosco, in silenzio, ascoltando solo lo scalpiccio delle foglie secche, il frusciare del vento tra i rami, i magici colori d’inverno, il sole radente su paesaggi di favola, le nubi che amorevolmente coprono le vallate, le rocce tiepide che scaldano d’intimità i cuori dei sognatori, e in un lungo cammino, scoprire mano nella mano nuovi sentieri, e terre, e cime, e vallate, e corsi impetuosi, e delicati ruscelli, e timidi animali che non ci temono, e accarezzarci in silenzio,e non essere mai più soli.  Chiunque sarai, per me solo il più importante dono del fato, e null’altro che questo. Oltre di te, nulla; oltre di noi, l’infinito. No, non è questa la poesia, questa sarà solo la vita.
Ma nel frattempo, spaccando l’incanto, torno alla realtà. Il freddo mi avvolge le spalle, e penso agli impegni dei prossimi giorni, agli esami da dare, ai compiti da fare, agli sforzi, alla fatica, all’impegno che dovrò impiegare. Ed ecco che quella magia svanisce, e che quel tiepido torpore se ne va. Torno alla realtà, sono atterrato. Il suolo freddo mi dice di non pensare, di distaccarmi. L’emozione ormai è tornata nella sua voragine profonda, e per un bel po’ non tornerà più su. Per un bel po’ la mia vita sarà normale, scherzosa, razionale. Vivrò sereno come sempre, senza pensare a ciò che voglio, ma solo a ciò che devo. Quando qualcosa di alieno si avvicinerà a me, io lo allontanerò come ho fatto finora, davanti allo sgomento e l’incredulità di chi mi conosce, da fuori. Sarò io, come sempre, per tutti. Ma per me, solo per me, nel profondo del mio corpo, il mio animo sa che sono anche qualcos’altro, il mio animo sa che cosa, nel mio profondo, desidero e sogno. E quel giorno, quel giorno in cui tu mi incontrerai, allora dopo anni e secoli di attesa, il mio animo sboccerà nel più bel fiore del mondo, ed i colori dell’emozione ti onoreranno come la più nobile delle regine, e allora saprai che ti ho trovata, e saprai che mi hai trovato, e tenendoci per mano passeggeremo lungo la nostra vita, assieme

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Trentesimo post

Sabato 16 Aprile 2016, ore 22.54. Vigilia del Referendum abrogativo sulle trivellazioni entro le 12 miglia

CHE COSA VUOL DIRE RESISTENZA, NEL 2016

Domani si vota, ed io sono molto preoccupato. Non per il quorum, che in cuor mio penso verrà raggiunto, nè per la scarsa affluenza che non credo sarà così scarsa da non permettere il raggiungimento della minima soglia. Io sono preoccupato,  e molto, per quello che questa piccola campagna elettorale ha rivelato ai miei occhi. Innanzi a me si presenta uno scenario che non mi aspettavo, e che mi ha stupito in modo molto negativo. Io, che nonostante qualche mia eccentricità non mi reputo un completo alienato, non pensavo che fossimo così pochi e così soli noi ragazzi giovani che ci impegnamo ed abbiamo a cuore il futuro di questo Paese ed il nostro futuro. Io, sì, io credevo che sotto sotto un po’ tutti si interessassero al Bene Comune. Magari non così tanto da seguire e tesserarsi ad un partito, magari non così tanto da andare a volantinare, magari non così tanto da trovare il coraggio di dire la loro opinione. Però, il coraggio di prendere una posizione al momento giusto, al momento che la Legge e lo Stato ha deciso essere propizio, quello sì. Votare si deve, non si può. Dietro quella piccola ics, dietro quel segno di matita indelebile su un foglio di carta, c’è stata una delle più grandi tragedie della nostra umanità. Ci sono stati martiri fucilati, ci sono stati innocenti gassati, ci sono stati soldati mandati alle peggiori morti da chi aveva troppo potere e troppo poco cervello. Ci sono state persone morte nella notte sotto le bombe, donne violentate dagli invasori -e non-, bambini e giovani uccisi nei modi più crudeli: l’orrore dell’Umanità, il peggio che questa terra abbia mai veduto. Ci sono stati dolori che noi non possiamo immaginare, ma che possiamo vedere ora, in questi giorni, negli occhi di chi, proprio per la mancanza di una democrazia, è costretto a fuggire da una delle più sanguinose guerre degli ultimi 70 anni. Orrori narrati dai superstiti che a noi sembrano inventati a volte, perchè la nostra mente non è capace nemmeno di immaginare cose simili. Come posso immaginare che mia nonna fosse fidanzata, e che il suo fidanzato, il suo futuro marito, l’uomo che lei amava, partisse un giorno per la Russia senza fare mai più ritorno? Come posso immaginare che un giovanissimo nonno, ingenuamente convinto della retorica fascista, abbia passato gli anni della sua giovinezza, sei lunghissimi anni, in un campo di prigionia in Kenya? E come un mio prozio, che aveva un futuro d’oro davanti a sé, appena laureato in giurisprudenza, scegliesse la via delle montagne, rischiando con pochi compagni una sorte terribile, ma con questo mortale rischio rinunciasse a macchiarsi di crimini contro il suo popolo ed i suoi fratelli? Noi non abbiamo mai visto un caro morire al nostro fianco, non abbiamo mai sentito il calore del sangue che scorre, né gli occhi che si perdono lentamente nel nulla. Non abbiamo mai provato, in pochi attimi, l’angosciosa esperienza di vedere una persona andarsene via, per sempre, senza possibilità di tornare indietro. Viviamo in un mondo basato sul CTRL+Z , dove qualunque sia il tuo errore, lo si può rimediare. Un brutto voto? Venti modi per recuperarlo. Un esame andato male? 5 appelli a tua disposizione! Cancellare e riscrivere, riparare, ricominciare, avere tante diverse chances. Ma la vita non è così, e non è stata così per chi davvero l’ha vissuta in tutta la sua orribile profondità. E chi ha vissuto questo, egli si che sa quanto vale quella piccola ics su di un foglio di carta. Vale più di ogni altra cosa. Vale la libertà, la pace, la sicurezza di non essere un giorno schiacciati da un folle, di non dover più vedere la morte cruda a pochi passi di distanza, di non soffrire più gli orrori che solo l’Uomo può produrre. Chi ha visto l’orrore, sa. Chi ha visto l’orrore, conosce l’Uomo. E lo previene.
Kurtz.
Noi invece non siamo così, noi vissuti nella bambagia, viziati all’inverosimile, cresciuti con i paraocchi come i cavalli da traino. Noi che non abbiamo la minima idea di cosa sia il mondo, di cosa sia davvero il male e di cosa significhi distruggere il proprio spirito e la propria psiche davanti alla più profonda sofferenza che l’Uomo è capace di arrecare a sé stesso. Cincischiamo di nulla perchè noi siamo il nulla, non sappiamo cosa è la vita e non sappiamo affrontarla. Quanti incapaci immolano la loro giovinezza in anni vuoti, spesi più alle feste che sui libri, e quali libri poi! Favolette innocue, perchè la fatica è dolore. Successi facili, per una felicità assicurata. Bambagia, quintali di bambagia ove tantissimi si tuffano, per stare al caldo, coccolati, sbaciucchiati in questo grande teatro de “il Mondo è bello, il dolore non esiste, tutto andrà bene”. Un giorno poi in faccia gli si presenta la crudissima realtà, davanti alla quale non si può sfuggire: in un istante, uno soltanto, vi sarà il concepimento di quello che per il resto della vità sarà detto fallimento esistenziale. Un attimo nel quale si capirà che la vita, ahimè, è terribile. La vita è, come diceva e ripeteva un uomo tanto pericoloso quanto saggio, è un dolore, un lunghissimo dolore illuminato dall’amore e da qualche gioia. Questo, sì, questo bisogna saperlo, non si può fare a meno di prenderne atto. Perchè poi, prima o poi, lo si scopre, e sarà tardi. Ma noi siamo fatti così, generazione di drogati, assuefatti dalla falsità e dalla finzione così tanto da esserne anche noi l’espressione. Scegliamo le feste, ridiamo, beviamo e fumiamo, perchè non dobbiamo pensare, non dobbiamo, nemmeno per un attimo, aprire gli occhi e vedere il male che ci circonda ovunque. Facciamo finta che esso non esista, come ci è stato insegnato, e continuiamo… continuiamo a danzare, ebbri del nostro nulla.
Il male esiste. Il male esiste e solo con la sua conoscenza noi possiamo capire come evitarlo. Io, io non posso davvero credere che i miei parenti abbiano sofferto i mali più atroci, abbiano visto i loro affetti scomparire sotto colpi di fucile, abbiano avuto il cuore maciullato dal male della vita, e tutto questo… per nulla! Tutto questo perchè solo 70 anni dopo, ad un Referendum, un voto per cui tutti loro hanno versato lacrime e sangue più di chiunque altro, non venga raggiunto il quorum. Non ci sia non dico la totalità, nè i due terzi, ma nemmeno la metà degli aventi diritto che abbiano il rispetto ed il senso di profondissima vergogna ed umiltà nei loro confronti capaci di portarli, senza se e senza ma, all’urna, per infilare quel pezzo di carta con una croce sopra in uno scatolone di cartone. Non si tratta della posizione presa in voto, assolutamente: si tratta del rispetto per dei morti, per dei martiri e per degli eroi caduti in nome di un ideale, in nome di un sogno, in nome di quel piccolo pezzo di carta che loro non avevano mai avuto. Se questo dovesse accadere, sarebbe come defecare su tutti quei morti, sarebbe come profanare un luogo sacro, perchè il non voto è la negazione di quelle morti, è il disprezzo per l’orrore vissuto dai nostri antenati, è la dimenticanza dei tanti sacrifici che chi aveva il nostro stesso sangue ha speso per noi, solo per noi e per la nostra libertà. Per permetterci di non avere limiti al nostro agire, per permetterci di camminare per strada quando vogliamo, per permetterci di avere fede in qualsiasi cosa senza per questo essere puniti o penalizzati, per permetterci di vestirci come vogliamo, per permetterci di cantare per strada, di riunirci con i nostri simili, di essere curati se malati, di essere seguiti ed educati dalla nascita fino ad oltre la maggiore età. Permetterci di lavorare, di sposarci con chi vogliamo, davvero con chi vogliamo, e di avere figli, quanti ne desideriamo avere! Permetterci di praticare qualsiasi fede. Le nostre terre hanno visto sangue rosso scorrere lungo rivoli, hanno sentito i tonfi muti di corpi cadere al suolo, sono state perforate dai colpi del piombo. Vicinissimo a qui, c’è un monte. Un monte famoso, perchè probabilmente è il monte che ha visto più uomini morire di qualunque altro monte. Ha visto giovani vite spezzarsi sotto i proiettili di avversari che in realtà non erano che fratelli, ha visto folli comandanti, accecati dal potere smisurato che avevano, mandare all’altro mondo intere generazioni, in nome di qualche pietraia e qualche bosco abbandonato. Ha visto, pochi anni dopo, tanti giovani disperati nascondervicisi, per sfuggire ad altri giovani, accecati dall’odio e dalla follia, che li volevano uccidere nel peggiore dei modi, e che così infine fecero, senza rispetto per niente, nemmeno per la madre Natura. Ora cosa vedrà, questo monte insanguinato? Dovrà forse vedere altro sangue, a breve? Dovrà forse vedere dolore e sofferenza nei volti dei suoi inquilini? Io… temo di sì.
Ho paura, terribilmente paura per ciò che sta avvenendo nel mio mondo: l’odio un tempo inimmaginabile ora è legge, e nessuno prova a contrastarlo. Non esiste più un’energia uguale e contraria a queste degenerazioni animalesche dell’Uomo: la Ragione non controlla di più l’Istinto, e lo lascia andare… la Ragione, la cara Ragione che ci ha salvato per tanto tempo, ora… non resiste più. Cade contro il disinteresse, si accascia sotto i colpi dell’assuefazione, viene decapitata dall’estremismo. Chi ora resiste alla follia? Chi ora cerca, nel nome di chi un tempo cadde, di fare sì che tutto quel sangue, e quei respiri non siano passati invano? Pochi e confusi, pochi e confusi… siamo allora alla frutta, all’anticamera della fine. Se nessuno resiste, se nessuno onora quei morti con un semplice voto, allora siamo alla frutta. Ed è terribile in queste situazioni sentirsi così soli, così pochi, così isolati dal resto del mondo che ti sembra camminare verso un’altra direzione, o che non voglia camminare con te, ma preferisca sedersi in terra ed aspettare che qualcosa accada, aspettare che qualcuno arrivi. Quel sangue infine avrà bagnato invano la nostra terra, quei giovani saranno morti invano. Chi oggi ha la loro età, si affloscia sui divani, si acceca con le droghe, si ubriaca, non vuole né pensare né credere a nulla. Vuole solo staccare il cervello, chiudere gli occhi, ignorare il dolore che piano piano lo divora, e far finta di nulla, illudendosi. Io ho troppa paura di questi scenari. Io non dormo la notte se penso a questo. Io ho ansia, ho malessere profondo nel rendermi razionalmente conto che la nostra splendida nave imbarca acqua, che tutti ne sono a conoscenza, che tutti sanno come riparare la falla… ma nessuno ha intenzione di ripararla. Ormai è solo il panico. Cosa succederà? Io ho solo 20 anni. Non voglio spargere il mio sangue come lo fecero i miei antenati. No. Dobbiamo evitarlo. Dobbiamo lottare, in pochissimi che siamo, dobbiamo cercare di riparare quella falla, di convincere qualcuno, anche solo una persona, ad aiutarci. Finiremo tutti morti altrimenti, e forse lo finiremo comunque, ma dobbiamo, con tutto noi stessi, provare a salvarci: stringere i denti, fino alla fine, con le guance rosse e gli occhi bagnati. Dobbiamo
resistere

23.58

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Ventinovesimo post

Domenica 6 marzo 2016, ore 00:50

IL MALE INCURABILE DELL’ESTREMISMO

Mao Tse-Tung, stima di 45 milioni di morti. Josip Stalin, stima di 20 milioni di morti. Adolf Hitler: oltre i 15 milioni. Genocidio armeno dei Giovani Turchi, circa 2 milioni. E non sono guerre, non solo guerre. Parliamo di persone, circondate da ampissimi entourages, che freddamente calcolavano la morte pianificata di masse immense di popoli, con la stessa tranquillità e la certezza  di chi beve il caffè del mattino. Riflettiamo su chi progettò campi di annientamento di massa, e chi nemmeno si sforzò di questo, semplificando il proprio agire per mezzo di carestie pianificate, o di chi obbligò un popolo intero ad una marcia infinita nel deserto siriano, fino all’ultimo morto di sete.
Perchè tutto questo? Come è possibile per una persona superare i sentimenti e gli istinti di sopravvivenza animali, sino allo sterminare sistematicamente, e nei peggiori modi possibili, dei suoi simili? Nessun animale al mondo è capace di ciò che l’uomo ha più volte ripetuto negli ultimi cento anni. E forse una risposta c’è. Forse quella risposta si cela sotto i sorrisini di soddisfazione, le pacche sulle spalle, i ringraziamenti e le dimostrazioni di rispetto di piccoli gruppi di persone -man mano sempre meno piccoli- nei confronti delle idee di un unico uomo (sempre uomo, mai donna). La sensazione di potenza che dà il successo nella società, specie per chi tendenzialmente non ne ha mai avuto, e per chi null’altro ha se non quello, è qualcosa a cui difficilmente si rinuncia. Un vizio che, lentamente ma inesorabilmente, stacca dalla realtà chi ne è dipendente, aumentandone invece lo spasmodico desiderio. Approvazione, esultazioni in proprio favore, sudditi piegati ai propri piedi che confermano ed esaltano ogni nostra parola: sempre di più, con sempre più successo. Pietro Nenni definiva Mussolini, quasi 50 anni dopo, come una persona che aveva sempre avuto voglia di comandare. Comandare e di essere adulati, avere un proprio esercito di folli disperati, avanzare oltre ogni ostacolo verso il proprio disegno ideale: realizzare i propri sogni superando qualsiasi limite, umano e divino. Ragioniamoci, pensiamoci: essere così deboli da non poter vivere una vita normale, perennemente esclusi dalla società, e trovare in un disegno degenerato la propria realizzazione. Essere così persi ed abbandonati, da poter dare tutto, qualsiasi cosa, in cambio di un riscatto personale, ma non uno qualsiasi, no. Non basterebbe mai il lavoro perso a favore di quel nostro conoscente tanto invidiato, nè la donna del nostro cuore finita in moglie al nostro unico amico; a nulla la compagnia negata nel passato, inutili i soldi che non abbiamo mai avuto. No, il desiderio di un disperato è direttamente proporzionale alla sua disillusione ed al suo fallimento esistenziale: per questo, e solo per questo, l’uomo emarginato e fallito ha venduto l’anima al diavolo pur di potersi rivalere e vendicare non contro un singolo,non contro un elìte, bensì nei confronti dell’umanità intera, nei confronti del Mondo crudele e beffardo che lo ha gettato nella pattumiera ancor prima di nascere. Qualsiasi cosa, pur della rivincita.
Non si vuol credere a queste cose? Si pensi allora al lato umano di persone come Matteo Salvini, Luigi Di Maio o Alessandro Di Battista: personaggi fallimentari nella vita privata e sociale, che grazie ad escamotages di vario genere hanno raggiunto i vertici del potere, e desiderano proseguire nel loro cammino verso la soddisfazione personale ed il godimento del proprio spirito, prima persone sole ed emarginate, ora circondate da folle (reali o digitali) di persone osannanti. Cosa farebbero queste come altre persone, pur di non perdere il loro potere, la loro fama, il loro ruolo di guida che hanno tanto agognato? Farebbero qualsiasi cosa. Ed ora, ora che finalmente hanno chi li sostiene, chi li acclama, chi ciecamente li osanna, perchè mai ritrattare le loro folli convinzioni? Perchè mai piegare la loro cresta davanti a chi la pensa in modo diverso dal loro, perchè mettere in discussione le loro certezze assolute? No, mai, mai nessuno potrà eliminare le loro verità, mai nessuno potrà insinuare la serpe del dubbio fra gli interstizi delle loro biblioteche del sapere, a nessuno concederanno di togliere ciò che con così tanta fatica si sono conquistati. A qualsiasi costo, con qualsiasi mezzo. Così furono i grandi dittatori, così sono stati i gruppi terroristici degli anni di piombo, così oggi sono tutti quei ragazzi che bazzicano tra Forza Nuova, CasaPound e gli ambienti Antagonisti, Disobbedienti, Antifascisti ed Anarchici. Molti di loro sono sudditi, alcuni di loro sono piccoli galletti che soddisfano le loro mire di potere e gloria, tra uno scontro con la polizia ed un pestaggio, tra una minaccia con un coltellaccio ed una scopata, tra una risata facile in qualche tugurio chiamato “centro sociale” ed una bevuta in qualche taverna nascosta tra svastiche e saluti a braccio teso. E magari, domani, dallo scontro si passa allo sparo, dalla minaccia all’omicidio, dalla risata alla pianificazione razionale delle proprie follie.
Non giriamoci attorno, sono queste le realtà. Persone altrimenti emarginate e disperate, senza un futuro e senza un miraggio di vita, che preferiscono buttarsi nelle tenebre della corruzione interiore invece che proseguire il lento cammino verso la luce della rettitudine. Persone che oggi possono farci pena, ma che domani possono farci paura. Persone che noi, da fuori, vogliamo bollare come squilibrate, ma che sono espressione della nostra cattiva coscienza, del nostro cattivo pensare ed educare, del nostro egoismo profondo e del nostro menefreghismo verso il prossimo. Potremmo vedere un nostro amico o una nostra amica fra di loro, e probabilmente lo lasceremmo affogare in quelle follie collettive, troppo spaventati o troppo poco coraggiosi per prenderlo per mano e salvarlo, finchè siamo ancora in tempo. L’estremismo è questo, è l’antagonismo verso il sistema sociale di chi risulta incapace ad integrarvisi, di chi, per un motivo o per l’altro, è stato ed è un diverso, di chi un giorno deciderà di vendicarsi per tutto quello che ha dovuto subire. L’estremismo è un gruppo di disperati che, incapaci di sostenere sulle proprie spalle il peso di un fallimento esistenziale, si abbandonano a verità rivelate, o se le creano da sè, per avere un miraggio di salvezza, per vedere una luce di speranza quando in verità non hanno nulla, se non le tenebre. E quando qualcuno cercherà di togliere loro quelle deboli fiammelle che li illuminano nel buio delle loro esistenze, muteranno in belve abominevoli, pur di non cedere quel poco di luce che hanno. A qualsiasi, assoluto, costo.
Dunque l’estremismo non ha speranza. Dunque l’estremismo non ha senso di esistere. Dunque l’estremismo non va visto se non come una forma di follia collettiva -o meglio, follia personale ripresa da molti- con un carattere fideistico assoluto, un virus della disperazione esistenziale che coglie gli spiriti deboli, e li porta verso l’oblio della ragione e del buon senso, verso azioni che altrimenti non avrebbero mai fatto, verso posizioni disumane, verso la violenza e l’egoismo più aperto e sfrenato. L’estremismo è fallimento e disperazione, se noi teniamo a mente questa cosa, ed osserviamo con questi occhi il mondo che ci circonda, molte cose assumono un nuovo significato, molte cose prima incomprensibili ora divengono palesemente funzionali. E noi non dobbiamo dimenticarlo, non dobbiamo cadere in quel tranello, non dobbiamo farci contagiare da quel virus. Restiamo svegli, continuiamo a pensare, mettiamoci in gioco e non pensiamo, mai e poi mai, di aver capito o di avere la verità in pugno. Noi dobbiamo sempre ricordare che la verità è per noi una luce verso la quale camminare, ma che resterà sempre irraggiungibile. Noi non la possiamo possedere, e non possiamo mai raggiungerla. Ricordiamoci che siamo e sempre saremo pregni di parzialità, di conoscenze approssimate e sempre correggibili, talvolta anche completamente riscrivibili. Non leghiamoci a nulla, ma cerchiamo di vivere in modo relativo e sereno, nella serenità delle nostre vittorie come delle nostre sconfitte, dei nostri fallimenti come dei nostri piccoli sucessi. Siamo sempre grati al prossimomo, troviamo la felicità nelle piccole cose, non cerchiamo più di quello che la Sorte ci ha offerto. In una parola: accontentiamoci.
Sempre

02:13

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Ventottesimo post

Sabato 5 Dicembre 2015,   ore 23:10

Finalmente un po’ di tempo per scrivere, e per riflettere in compagnia della mia morbida tastiera. Ma noi, quanto siamo animali? Quanto, per meglio dire, il nostro essere risente di istinti primordiali, di bisogni essenziali -assolutamente non razionali- per sopravvivere? In questo ultimo periodo ci ho riflettuto, sia vivendo sulla mia pelle fenomeni che non hanno altra spiegazione se non quella riconducibile alla nostra essenza materiale ed animale, che vedendo un film, all’apparenza banale, che ha acceso alcune lampadine nella mia mente sensibile ed irrequieta: Fight Club. 
E’ un periodo difficile per la mia psiche, messa sotto stress sotto vari aspetti: da una parte essa è impegnata nello studio senza tregua, in un disperato -e spero non vano-  tentativo di colmare le immense lacune scientifiche che cinque anni di Liceo Classico mi hanno lasciato, dall’altra la sensazione di impotenza innanzi a tali divari conoscitivi rispetto ai miei colleghi, che con ben altri bagagli culturali non hanno le mie difficoltà, e con un minimo sforzo riescono a raggiungere i migliori risultati: loro con poche bracciate raggiungono la riva, mentre io annaspo convulsamente nel tentativo di rimanere a galla. Una sensazione prevale, prorompendo vigorosamente sopra ogni altra: l’umiliazione. Eh sì, perchè è umiliante, e non poco, vedere chi nuota agilmente senza difficoltà, pur non avendo fisici particolarmente diversi dal proprio, ma conoscendo molto bene la tecnica e lo stile ideale: è l’ignoranza la più malvagia fra i nostri secondini, quella che ci deride con la maggior efficacia possibile, e on è facile, per nulla, mantenere i nervi saldi. Ma come mai, perchè è così difficile proseguire verso il cammino che la ragione indica? Perchè, pur essendo consci del fatto che non ha senso soffrire per insuccessi più che giustificabili, avendo la certezza di aver fatto davvero tutto ciò che era nelle nostre possibilità, noi soffriamo di questo? E sopratutto, perchè non riusciamo a dominare la nostra mente, riuscendo a spingere la sua capacità di apprendimento solo fino ad un determinato limite di ore giornaliere, oltre le quali risulta impossibile per il nostro fisico proseguire?
In Fight Club  il personaggio soffre proprio di questo, dell’incapacità di gestire il proprio corpo, ovverosia il proprio lato animale: non riesce a legarlo ad uno stretto guinzaglio e a fargli percorrere la strada che la mente vuole, bensì viene letteralmente sopraffatto da esso, trascinato via dal suo essere bestia, una belva grossa e muscolosa, potente ed agile, capace di trascinare la mente oltre qualsiasi asperità se stuzzicata, impaurita o infuriata. Ebbene sì, siamo dei banali personaggi di una commedia che portano a spasso una tigre, legata al guinzaglio: quando a questa viene voglia di cambiar strada, ben poco possiamo fare se non cercare di seguirla senza farci trascinare di forza: noi siamo una mente perennemente succube di un corpo che non risponde in nessun modo, se non in minima parte, alla nostra volontà. Tralasciando l’esempio del sentimento amoroso, di cui sono certo questo blog sia stracolmo sia direttamente che indirettamente, vorrei incentrarmi sulla riflessione riguardo le emozioni ed il lavoro mentale, come lo studio, che sono -anche se apparentemente non sembra- strettamente e terribilmente legati. Non parlo solo del fatto che, dopo diversi giorni di solo, unico ed ininterrotto studio , cominciamo a sentirci male, rendiamo molto meno di quanto rendavamo pochi giorni prima, siamo stufi e nervosi, anzi nervosissimi, molto suscettibili alle provocazioni ed infinitamente irritabili: non basta il risposo, anzi! Quel che cerchiamo è una valvola di sfogo, nella maggior parte dei casi sportiva, fisica, meccanica: correre, nuotare, scaripinare, pedalare… come bestie impazzite, dobbiamo consumare la nostra rabbia prima di riuscire a rimetterci sul banco di studio. A pensarci bene, potremmo paragonare la situazione ad una bilancia a due piatti, dove da una parte vi sia il lavoro intellettuale,  e dall’altra il lavoro animale: l’equilibrio deve permanere, all’aumentare dell’uno urge una compensazione dell’altro, quasi vi fossero delle vere e proprie leggi che ce lo impongono, che ci limitano allo sbilanciamento. Ma perchè? Potrebbe essere un involontario sistema di protezione, che ci impedisce di distaccarci troppo dalla nostra essenza umana, e ci obbliga a rimanere enro i nostri limiti, quelli di esseri senzienti sì, ma in carne ed ossa. D’altr onde, se penso ai peripatetici la loro tecnica acquista di colpo un significato molto più denso e ragionato, forse già duemilatrecento anni fa l’uomo aveva capito che la convivenza con il proprio essere animale era inevitabile, e non aggirabile in nessuna maniera se non nell’assecondarlo! Allora facciamo così anche noi, assecondiamo il nostro essere animale accettando senza troppe domande questa nostra doppia essenza: chiamiamola come desideriamo, sia essa “umanità mancata” o “bestialità evoluta” a seconda dei gusti, ma poniamo questa premessa e proseguiamo.
Dunque, conviviamo con l’essere animali, va bene. Ma allora perchè ne soffriamo tanto? Perchè, pur consci di aver fatto tutto ciò che era nelle nostre possibilità, soffiamo nel vedere chi sa nuotare meglio di noi? Non è facile trovare risposte razionali, se non forse azzardando risposte animali. Forse, in quanto animali, noi ricerchiamo il primato sui nostri concorrenti, sui nostri simili che ci rubano il cibo, ci occupano il terreno di caccia, conquistano le nostre femmine, ci escludono dal clan: noi dobbiamo essere a capo del clan, noi dobbiamo avere la certezza di essere, se non i primi, i secondi a mangiare la carne ancora calda della gazzella appena catturata, non possiamo accontentarci delle ossa, o moriremo. Per questo stiamo male quando ci toccano le ossa, anche se abbiamo fatto davvero di tutto per conquistare la carne buona: noi ci rendiamo conto di essere impotenti, e quindi difettosi, fallati, privi delle capacità che altri possiedono, che altri membri del clan hanno avuto la fortuna di ricevere da madre Natura, quando noi invece ne siamo stati privati, puniti per un crimine mai commesso, accecati come Tiresia per una colpa involontaria, e destinati alla sofferenza perpetua ed alla menomazione sempiterna (?). Eppure non sarà sempre così, eppure non siamo destinati all’emarginazione infinita: noi avremo sempre, in ogni occasione , la possibilità di (ri)prenderci il ruolo che desideriamo, facendoci valere, con il duro lavoro, e raggiungendo la testa del clan, mangiando la carne assieme ai migliori, quelli come noi, per lo meno come noi desideriamo essere. Solo questa pare la spiegazione plausibile, l’unica risposta che, per ora, riusciamo darci davanti a domande che si alzano come catene montuose, sbarrandoci la strada verso il Sapere. Anche perchè noi, prima di quel momento, non avremo mai la certezza di poter raggiungere la cima della montagna, e sarà più la paura di rotolare a valle che la speranza di conquistarne la vetta.
Ora che abbiamo fatto ordine, o meglio che ci siamo illusi di un qualche ordine inscenato nella nostra mente, uno spettacolino da balera che ci illuda di capire qualcosa di più, ebbene noi ci accorgiamo, babbei, che non siamo nulla di speciale. Non siamo chissà quali esseri superiori se confrontati alle bestie , non abbiamo nessuna particolare dote, neppure quella della ragione: anch’essa infatti è ben confinata nel reconto dell’essere animale, una parentesi di regole matematiche all’interno della massa nervosa di una pericolosa fiera. Regole matematiche che nella stragrande maggiornanza dei casi vengono utilizzate per fini egoistici e bassi, direttamente o indirettamente che sia: siamo noi che dobbiamo mangiare la carne buona, noi che dobbiamo raggiungere la riva con poche bracciate, noi che dobbiamo possedere le femmine del branco, noi che dobbiamo controllare il terriorio, noi che dobbiamo compiere la nostra missione biologica. Non contano i mezzi, conta il risultato finale, unicamente.
Per questo, allora, soffriamo?
Ho paura ad azzardare la risposta. Anche perchè sono domande, dubbi, constatazioni che giorno dopo giorno incontriamo, man mano che il tempo scorre, che le foglie cadono e ricrescono, sciarpa dopo sciarpa, costume dopo costume, lungo il tragitto infinito che abbiamo appena iniziato e che permette un unico senso di marcia, tragicamente o magicamente che sia.

00:20

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Ventisettesimo post

Giovedì 26.11.2015, ore 00:44

CI MASCHERIAMO IN CIÒ CHE CREDIAMO DI ESSERE

eh sì, perchè fresco fresco di teatro, dopo aver visto l’ Enrico IV  di Pirandello, ecco che subito mille idee mi son balzate in testa mentre ripercorrevo freddi e desolati viali verso casa. Il tutto, come sempre, da una briciola di spettacolo, una manciata di secondi in un mare di due ore e mezza, una frase per molti banale, ma che in te, e solo in te ha fatto scoccare una scintilla, ha fatto nascere l’idea. Ci mascheriamo in ciò che crediamo di essere, ovvero noi, noi esseri sociali, immergendoci ogni mattina nel nostro humus vitale fatto di parenti, amici, conoscenti, colleghi e sconosciuti, indossiamo diverse maschere: un vestito, un sorriso, una battuta, una frase, un gesto che non è, mai, casuale, bensì inserito all’interno di un preciso registro di codici e regole, un complesso ingranaggio che, con la presenza di molteplici ed infiniti componenti, produce la riproduzione verso l’esterno di ciò che noi desideriamo essere. Una sciarpa rossa per darci un tono, occhialetti tondi per comunicare le nostre ridicole velleità intellettuali, capelli lunghi da hippie mancato, il tutto attentamente condito con qualche battuto, una risata nel momento giusto, la fase ad effetto quando si presenta l’occasione, il gesto gentile e quello scortese, il passo ed il ritmo di camminata, il tono di voce e l’accento variabile nel colorare le frasi relativamente al nostro interlocutore, con i silenzi enigmatici, gli sguardi misteriosi, la falsa, falsissima, nauseante modestia a cui davvero nessuno potrebbe credere. Maschere, costumi indossati per costruirci un ruolo nella scena, un personaggio da incarnare con un copione da seguire. Perchè dunque?
Di nuovo Pirandello ci risponde, ridendo di noi che siamo costretti a tali acrobazie caratteriali per non cadere nel vuoto del dubbio e dell’ambiguità, del silenzio dopo le domande, del terrore angoscioso generato dall’assenza di appigli, nel vuoto più totale della vita: Enrico IV l’ha capito, ed ha rifiutato di gettarsi nell’incertezza della vita, scegliendo la certezza, la sicurezza, la nettezza di una storia già scritta, e non da scrivere, il cui futuro già noto e le cui fasi documentate nei minimi dettagli adagiano il suo spirito su un morbido letto, coccolandolo e tranquillizzandolo, rilassando la mente ed ibernandola nella magica illusione della vita passata. Un’immagine, questa, spaventosa, ma che ci mette davanti al naso, senza possibilità di non guardarla, la realtà terribile della nostra esistenza artificiale, priva di qualsiasi personalità, ma formata da pacchetti prefabbricati di “caratteri” da applicare a piacimento su se stessi, quasi fossimo automi schiavi del nulla che siamo. E’ questa la realtà? Essere il non essere, mettere in scena mille  e mille volte delle parti già scritte dalla nascita alla morte, come marionette. Per Pirandello si, tanto che mette questo discorso in bocca a Tito, il quale demolisce le illusioni della giovane figlia quando sentenzia che “la vita del giovane non è che la riproduzione degli stessi errori, le stesse fantasie, gli stessi successi e gli stessi desideri di chi lo precedette”; per noi allora… una difficile possibilità che comunque non possiamo ignorare. Il disegno costruito ora, ovverosia quello di un’esistenza anonima, costruita sul palco di un teatro raccattando i soliti, consumati costumi (“sono sempre gli stessi i personaggi che Enrico IV incontra durante le sue visite”, ci dice una guardia durante le prime scene) assume dimensioni psicologiche imponentissime se applicato alla sua naturale conseguenza -anch’essa esplicata in un dialogo del dramma-: ma dunque, noi recitiamo secondo il copione che vorremmo  gli altri leggessero, il che non vuol dire che sia effettivamente ciò che chi ci circonda legga! In poche parole, come siamo visti dagli altri? Ovviamente secondo altrettanti caratteri prefabbricati, pacchetti di stereotipi e convinzioni applicati alla nostra persona in base alla lettura che (caso per caso!) viene fatta del nostro essere, o meglio del nostro recitar d’essere. La cosa è inquietante, anzi senza mezzi termini terrorizzante se applicata alla nostra comune vita: come siamo visti? Cosa pensano realmente di noi le persone che vediamo tutti i giorni, come ci leggono, come siamo schedati e codificati? No, non è in questo caso la curiosità a prevalere innanzi a questi interrogativi, ma la paura, la tenacissima paura immortale della solitudine perpetua: una paura, un sentimento istintivo che come tale non può quasi per niente essere controllato, ma che rapido sale dallo stomaco mentre scriviamo a ruota libera queste righe convulse, e come un bolo indigesto s’avvicina alla gola, bloccandola e terrorizzandoci con le sue tanto rapide quanto apparentemente inconfutabili conclusioni: l’esser nulla, se non ammasso di carne scimmiottante stereotipi prefabbricati al fine di non essere solo, ma di rimanere dentro il clan, il gruppo, il branco di umani, per non morire di stenti e soprattutto per portare a termine la missione biologica della riproduzione.
Sono, queste, riflessioni vaste, le quali nonostante nascano da una frase, un gesto, un sorriso, una banalità qualunque, sprigionano propulsivamente conclusioni che toccano tutti i campi dello scibile, dalla psicologia alla storia antica, dal teatro greco alla biologia fino alla medicina e la religione: tutte, queste, parti del nostro IO, un mistero da risolvere che forse mai risolveremo, e che per questo, probabilmente, ci stimola e ci stimolerà all’infinito nella ricerca di una risposta. Quante domande, quanti dubbi, e paure ed ansie, e gioie e felicità, e sentimenti forti, fortissimi, sensazioni di piacere e calore, e visioni di futuro felice e splendente, che però si scontrano con altrettante visioni apocalittiche di solitudine e grigiore, tristezza e fallimento nella propria missione: tutto rappresentato come un minestrone buonissimo, il più buono mai esistito, ma i cui ingradienti restano sconosciuti: noi, dalla notte dei tempi, lottiamo con tutti noi stessi nella ricerca di questi, ancora non li abbiamo trovati e probabilmente non è destino che li troviamo: forse è questa, la ricerca della ricetta, la spinta propulsiva della nostra vita.

01:33

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Ventiseiesimo post

Lunedì 2 Novembre 2015, 20:37

COME NON INDIGNARSI?

Che periodo confuso stiamo vivendo! La confusione è su diversi piani, anzi forse su tutti i piani sociali.
Il primo piano è quello intimistico, nella situazione molto bella nella sua confusione di un mondo nuovo, con persone, ambienti, realtà nuove: il mondo universitario. Un mondo fatto di forti contraddizioni, molto più accentuate rispetto a quello della tiepida vita liceale, calato su una città nuova, grande, complessa e ricca di storia. Una città piena di vita e di colori, che diversamente dai miei luoghi natali ingloba i suoi abitanti, e non viceversa. Una città che non si può controllare, ma da cui si è (amorevolmente) controllati, anzi coccolati. Una città dove si fanno nuove conoscenze, da realtà diverse, disparate, con passati che quasi sorprendono chi, come me, nella sua ingenuità pensava di avere già assaggiato un po’ di vita vera. Climi diversi, dinamiche più complesse, multietnia, tante tante novità che, siano belle o brutte, stimolano molto la riflessione: diciamo che questa è la miglior confusione.
Il secondo piano è quello della società giovanile. Qui, tra noi giovani, regna la confusione pressoché totale nell’aspetto civico e politico: quasi trent’anni di disinformazione mediatica hanno creato generazioni di ragazzi senza cognizione di cosa sia la cittadinanza, i diritti ed i doveri del vivere in una grande comunità chiamata Stato, l’importanza della democrazia e della politica ad essa strettamente collegata. Come è possibile sentire coetanei, ma anche ragazzi molto più grandi di me, che si chiedano “ma a che serve votare?” “ma chi devo votare?”. Il sentire queste frasi mi gela il sangue, peggio ancora che il discutere con quelle persone, quelle persone fragili, che si tuffano nelle demagogie perchè abbandonate dal mondo, e si drogano di illusioni portandole avanti fino alla morte. Nessuno, o forse pochi, troppo pochi, si rendono davvero conto della drammaticità di questa situazione? L’imbarbarimento della cosa pubblica, del Bene Comune, ci porterà agli autoritarismi, al collasso del sistema democratico a vantaggio di chi desidera il potere per il potere: non sono io a dirlo, ma la storia che, inevitabile, ricorda le leggi del mondo con le sue pagine. La mia in questo caso è quasi vera paura, perchè l’assenza di un sentimento civico condiviso dalla grande maggioranza della popolazione (giovanile!) ed allo stesso tempo l’assenza di figure morali, politiche e culturali di spicco nel nostro panorama mediatico rischia di aiutare, e di molto, le derive demagogiche di chi in nome del potere è pronto a tutto. Non ininfluente è stata la mia esperienza negativa in alcune realtà associative e semi-politiche del mio territorio, che se in un primo momento mi avevano dato speranza in questi termini, con il loro rapido decadimento hanno generato in me non poche preoccupazioni. In una società dove la politica insegna che il vincitore è colui che alza la voce e sbatte i pugni, il futuro appare fosco: dico questo senza risparmiare la minima critica a chi, pur condividendo con me gli ideali, ritiene che l’applicazione dei medesimi debba passare attraverso questi strumenti, quali appunto l’imposizione invece che il compromesso, l’autoritarismo invece che il dialogo, la violenza verbale e fisica come arma  risolutiva dei problemi sociali che, pur rappresentando una ridicola minoranza della popolazione, molti personaggi ritengono di poter risolvere essendo eletti, prescelti, unti dalla Verità scritta su qualche libro ammuffito. Ogni qual volta mi imbatto in certi scontri di pensiero, mi abbatte e mi deprime il constatare queste situazioni, sempre più frequenti, sempre più radicate nella società.
Il terzo piano è quello internazionale, il piano dove alla preoccupazione si aggiunge, preponderante, la rabbia dell’indignazione, il furore della sconfitta! Il razzismo, una piaga che doveva essere debellata nel dopoguerra, oggi riaffiora come se nulla fosse, come se il passato non esistesse: con tranquillità queste idee perverse che hanno portato l’umanità sull’orlo dell’estinzione ritornano di moda, senza che nessuno vi ponga apertamente, e con sincerità, un muro invalicabile innanzi: l’Europa che fino a pochi anni fa sembrava una sicurezza, un palazzo in costruzione con solidissime fondamenta, ora inizia a crollare davanti ai nostri occhi, come mai avremmo immaginato! Le nazioni rinascono con i nazionalismi, i confini vergono tracciati ti nuovo, là dove si progettava di costruire ponti e strade ora si alzano reticolati e si puntano fucili: il mondo e la storia stanno tornando indietro come mai, e dico mai avrei potuto immaginare. A questo si aggiunge il genocidio di diverse nazioni, dilaniate dalla guerra ed ora dalla follia di disperati uomini, che non hanno nulla da perdere e si gettano a braccia aperte davanti a chi offre loro un futuro utopico, immerso nella religione islamica appositamente plasmata per loro. La più grande apocalisse dell’ISIS non sono le teste mozzate, ma la distruzione del Popolo e delle Nazioni con l’annullamento della cultura, la cancellazione dell’identità mediante la cancellazione del passato: mi si blocca lo stomaco nel vedere Palmira saltare in aria, sculture millenarie in frantumi, santuari ridotti a bivacchi o poligoni di tiro. Il pensiero perverso di questi folli ripercorre pari passo quello di chi li ha preceduti, primo fra tutti il nazismo omogenizzante, distruttore di identità per creare un mondo nuovo, da zero. Si badi a non cadere in errore, la distruzione dell’identità di un popolo, della sua memoria, è stata fatta sempre: a ritroso si può citare la Cina maoista, la Russia del ventennio post-rivoluzionario, la rivoluzione francese fino alla devastazione dei templi pagani per mano delle comunità cristiane nel dopo-Roma. L’arma peggiore è quella, la cancellazione della memoria, dell’identità, ed io rabbrividisco nel constatare che la seconda guerra mondiale non è servita come lezione all’Umanità, non è bastata per evitare che tali orrori si ripetessero nuovamente. Questa confusione, questo tentennamento dei popoli non genera solo esodi biblici e inutili morti, no: esso favorisce anche alla degradazione dello spirito comunitario umano, stimolando indirettamente l’odio e la violenza fra i popoli. Davanti a tutto questo, il sentimento di impotenza è immenso, la sensazione di sconfitta diviene un macigno insostenibile, unico sfogo naturale il panico schizofrenico. Ne segue in me un fortissimo sentimento di dover agire, imperitura autoimposizione di impegno civico per contribuire a salvare questo mondo e questa umanità, con tutto quello che delle formiche quali noi tutti possiamo fare: dialogare, seminare il verbo della pace e della fratellanza, curare i germogli di tolleranza, impegnarsi per la pace, da quella con il vicino di casa a quella tra le nazioni, spingere per la tutela ed il mantenimento dei diritti per i deboli e gli indifesi. Non è facile, specie quando poi si pecca di arroganza, o quando l’agire diviene fonte di invidie (fenomeno raro ma presente) e rancori da parte di chi non capisce certe posizioni, ed istintivamente si pone sulla difensiva osteggiandole. Io credo che mai come adesso io, come tutti, dobbiamo fare un grande sforzo in più: quello di andare oltre il personale, oltre i dolori ed i problemi dell’anima, ed impegnarci quanto più possibile per salvare l’Umanità da noi stessi: anche se soli contro molti, non dobbiamo arrenderci; anche se criticati per il pensiero e gli atteggiamenti, dobbiamo andare avanti: non possiamo cedere, non possiamo conformarci all’odio, al razzismo, al campanilismo. Ci vuole la forza ed il coraggio di staccarsi dal coro, anche se pecore nere, ba bisogna farlo, perchè è in ballo qualcosa di superiore: se in un primo momento sarà la solitudine ad accoltellarci, per farci cedere, poi saremo ripagati dalla felicità di chi professa il bene e costruisce la pace. Bisogna avere il coraggio di essere diversi, bisogna avere il coraggio di tendere la mano, rischiando di farsi staccare un braccio, ma rischiando per la causa giusta.

21:36

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Venticinquesimo post

Giovedì 20 Agosto, ore 21:30

Oggi tocco un argomento non nuovo, ma che sento essere cardine di questa esistenza: la solitudine. Probabilmente ne avevo già parlato, ne avevo già scritto riflettendo su come la nostra vita, apparentemente aperta alla comunità, si riveli tristemente individuale, schiva, ridotta alla solitudine più profonda. Dico tristemente, perchè questa non è certo per me una situazione piacevole, anche se questo non significa che ne voglia sfuggire. La solitudine, specie in questo ultimo periodo, sta raggiungendo in me il suo apice, la sua totalità: dopo aver perso gli amici, dopo essere uscito dal -seppur squallido- mondo della scuola, ho passato questa estate (e sto passando questa estate) nella totale assenza di simili. Sì, è vero, ho contatti telematici con qualcuno, anche se contatti non certo sinceri e profondi, ma formali e grigi. Certo ho la famiglia, il che annulla di molto la reale solitudine, anzi quasi ne rappresenta l’opposto in quanto mi trovo convinto, molto convinto, nel ritenere che non vi sia più forte legame che quello di sangue, e più forte affetto ed amore tra creatore e creato, tra consanguineo, tra chi ha condiviso sin dalla nascita il pane, l’aria, il tempo, lo spirito.
Manca però, e si sente, la parte “importante”, quella tipica del giovane, cioè la vita assieme ai suoi simili. Rinchiuso volontariamente in casa, ho ormai dimenticato cosa significhi uscire la sera, bere con gli amici, scherzare, fare stupidaggini, ridere assieme ed insomma, vivere con gli altri, con i giovani, con i miei simili. Ho dimenticato quel piacere, quello che un tempo era linfa vitale e che oggi semplicemente non è. Desidero, quasi, isolarmi.
La solitudine è divenuta in me, da situazione da evitare, un obbiettivo da raggiungere. La solitudine totale, lontano dal mondo, dagli amici, dai conoscenti, completamente chiuso in me stesso e con me stesso, senza respirare aria altrui, senza parlare con qualcuno, senza leggere le vite degli altri su facebook o su qualche semi-abbandonato gruppo in chat.
Una disintossicazione, o una intossicazione letale? In tutta sincerità escluderei la seconda, la vita è lunga e sono affamato di persone, di legami, ahimè di affetti… probabilmente questa fase estrema durerà solo questo periodo, poi con l’università molte cose, ne sono convinto, cambieranno. Ma questo momento è carico di riflessioni: chi sono io? Come mi vedono gli altri? Come interagisco con loro e quali codici di comunicazione utilizziamo per tenerci in contatto? Spesso questi codici sono diversi, e me ne accorgo quando è tardi. Sono utili, perchè non si può dire tutto con le parole, per lo meno non in modo esplicito. Una frase ha tanti significati, in base a chi la ascolta, il problema è “chi” appunto. Quel chi ha capito davvero? Ha frainteso? E’ semplice essere odiati, difficile essere apprezzati: la difficoltà e gli errori di linguaggio sono a mo avviso una trappola letale.
Eliminare il linguaggio. Eliminare la comunicazione interpersonale. Apatia, solitudine, noia, vuoto dei sensi: potrebbero essere delle idee da sviluppare. Cosa succederebbe se tagliassi quei pochi fili che mi legano alla vita sociale? Starei meglio, respirerei la libertà dell’essere nessuno e poter fare ciò che desidero senza limiti morali e di “ruolo” nella società in cui veniamo incatenati? O forse, cadrei in profonde depressioni dalle quali non mi rialzerei mai, accelerando quel processo biologico che ci porta inevitabilmente alla morte , la fine del nostro inizio perpetuo? Sono domande interessanti anche se spaventose, per certi versi.
Che faccio?
Io vorrei tagliare quei fili, definitivamente, entrare nella solitudine, essere dimenticato, morire in pratica. Provo piacere quando nessuno sente più parlare di me, e si stupisce che “sia tornato”. E’ una sensazione quasi di vittoria, di libertà, che compensa in minima parte l’oceano di sofferenze che travolge il solo quando non ha più gli scudi e le droghe della società a proteggerlo. Da soli, si perde l’effetto della morfina che la vita di società ci somministra quotidianamente, per supplire alle fatiche ed al male, il male profondo, quello che blocca lo stomaco e distende i muscoli facciali. Dolore della rassegnazione, a 19 anni.
Non voglio finire qui tutto, no. Ma fa male, fa male andare avanti, essere sempre frustato dalla vita e continuarla solo per il gusto di vendetta, l’unico elemento che da veramente grinta ed energia, l’unica fonte della voglia di vivere. Forse è vero, che gli illusi non hanno ancora sofferto abbastanza. E’ vero che chi gioisce è solo un immaturo, un giovane inesperto della vita, che crede ancora che sia bella. Il vecchio, apatico, lui solo sa cosa sia il vivere, l’essere: esso è il dolore. Continuo ed inarrestato.
Ma se per me questa è la vita, se per me questo è l’essere, se io dentro di me vedo solo un mantello nero che, armato di frusta, mi flagella in eterno, allora che speranze ho per il futuro? Come potrò mai instaurare un rapporto se questo è ciò in cui credo? Chi mai, chi mai condividerà con me questa visione, senza considerarla -come fan tutti- un male, una visione distorta ed allucinata della realtà? Sono io l’allucinato, o sono gli altri i ciechi? Questa è la grande domanda. Perchè se come temo non troverò nessuno che riesca a prendermi per quello che sono (niente di speciale, un ammasso di carne che non ama illudersi della vita) allora sarà davvero solitudine. E se la solitudine è sofferenza, allora non avrò vie di fuga. Non posso essere come chi già prima di me decise di chiudere il conto con il peplo nero, non ne ho la facoltà. Ecco, ecco la mia ultima deduzione. La solitudine crea dubbi, dubbi a cui come uomini non sappiamo dare risposta, ed il dubbio insolvibile diviene la più grande fonte di dolore, nei secoli dei secoli
amen.

22:04

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Ventiquattresimo post

11 Giugno 2015, 01:13

Beh, è un giorno speciale. Direi anzi un giorno focale nella mia vita, come nella vita di tutti quelli che, come me, oggi chiudono un’era iniziata ben 15 anni fa.
Oggi finiamo le scuole superiori, e con quest’ultima cena di “addio” appena passata, segnamo la fine di un lungo percorso di formazione umana cominciato ancora all’asilo.
Prima eravamo soli, figli dei nostri genitori e nipoti dei nostri nonni, null’altro. Non conoscevamo i nostri coetanei salvo il caso di qualche figlio di amico di famiglia o qualche cuginetta o cuginetto. Nell’innocenza della prima età, eravamo felci anche se sostanzialmente soli, accuditi dai nostri genitori e con la voglia di conoscere il mondo che ci spingeva, ogni giorno, a cercare, a capire, a chiedere incessantemente “Mamma, ma perchè…?”.
Siamo poi passati all’asilo, la prima esperienza con bambini della nostra età, ed è lì che abbiamo conosciuto il significato della parola “amicizia”. Ricordo ancora un piccolo aneddoto di quegli anni speciali, quando in montagna conobbi un bambino della mia età parlando attraverso un muro di mattoni cavi che delimitava il mio giardino dal suo: nel pieno della mia incoscienza, dissi a mia madre poco dopo “Ma mamma, è facile farsi un amico: basta sapere come si chiama e quando è nato!”. Questa è un po’ quell’età, un’età senza cattiveria o rivalità, un’età limpida e sana, onesta.a
Le elementari sono invece il quinquennio della prima svolta: piano piano si cresce e si comincia a conoscere davvero una persona, pur nell’innocenza di un bambino. E’ lì che iniziano le amicizie, con l’amico di classe con cui si gioca nel pomeriggio, o con il quale si fa qualche attività sportiva; sempre lì nasce il virus dell’emarginazione, con i bambini che fanno gruppo attorno ad un qualche capo riconosciuto, ed emarginano i “diversi”, spesso e volentieri più per le malelingue che sentono in casa che per altro (“ma sua mamma è una polemica! Magari pure comunista!). Non è necessariamente un periodo facile, perchè a quell’età certe cose non si comprendono: si vivono. E’ il perido delle feste di compleanno e dei giochi di squadra, delle lacrime in classe e dell’emarginazione nei giochi. Per me, non è stato un bel periodo nel complesso.
Il triennio delle medie è una chiave di volta più che una svolta in sè e per sè. Sono tre anni dove si apprende la sessualità e dove i contorni sociali del gruppo di bambini-adolescenti si fanno più marcati. Le bambine-ragazzine cominciano a voler sperimentare il bacio e anche qualcos’altro, i maschi entrano in competizione, eliminando con innocente brutalità i rivali più deboli. In un certo senso, sono anni di passaggio abbastanza ambugui. Per me sono stati anni di emarginazione vissuta tutto sommato bene: non concepivo il mio essere un ragazzo in una comunità, e la passione per delle nuove materie come la tecnologia e l’informatica mi facevano dimenticare quanto in realtà la mia vita sociale fosse triste e misera, annientata dai gruppi dominanti.
Ecco che si arriva alle superiori: i cinque anni che ti cambiano, davvero, la vita (per ora hahaha). Si cresce davvero, diventando man mano sempre più uomini e sempre meno bambini, imparando ad ammirare le bellezze dell’altro sesso e, soprattutto, innamorandosi. L’amore, che docle belva! E’ adesso, ancora abbastanza innocenti per cascarci ma allo stesso tempo abbastanza grandi per concepirlo, che si sperimenta questo colossale evento interiore. Pensieri e parole, stati d’animo, stati fisici, insonnia, mal di pancia, felicità irrazionale, insomma di tutto! Tutto per una bambina cresciuta, che non è ancora donna ma che, inconcepibilmente, ci attrae incredibilmente (e non parliamo del caso in cui sia nella nostra neonata classe!): è davvero un dolce incubo. Sono gli anni in cui abbandoniamo i nostri lati infantili, lasciamo nei cassetti le tute e chiediamo ai nostri genitori i jeans alla moda, le felpe e le magliette, mentre cerchiamo goffamente di pettinarci e di nascondere gli innumerevoli brufoloni che m
invadono la nostra faccina infantile e sbarbatella. Passano gli anni, e man mano che andiamo avanti ridiamo nel guardare indietro, nel vederci goffamente infantili anche nel giro di pochi mesi: E’ qualcosa di strano e difficilmente comprensibile, perlomeno io faccio fatica ancora adesso a capirne anche solo i tratti generali. Di certo è un periodo di mutamento, quasi una metamorfosi di cinque anni. Il problema viene ora però.
Fino a qui abbiamo avuto delle linee guida, qualcosa da seguire che ci ha mantenuti nella giusta direzione, rassicurandoci in quanto, dentro questa esistenza di continua metamorfosi, questo qualcosa rimaneva sempre stabile e fisso: parlo della struttura della classe, dell’insegnante che ci conosce e ci vede crescere, che ci guida. Parlo dell’essere in classe alle 8:10 ed uscire alle 13:10, il fare i compiti, l’avere le verifiche ed il non essere soli in tutto ciò, ma il soffrire assieme queste esperienze, come il gioire assieme: tanti ragazzi e ragazze (soprattutto ragazze, in quanto liceo classico) che, sebbene diversi e magari anche in disaccordo fra di loro, vivevano nella stessa barca, remando verso la stessa direzione

fino a dodici ore fa.

Ma adesso? Cosa succederà ora? Ora la classe non esiste più, da domani cammineremo soli verso il nostro incerto destino, senza un compagno con cui confrontarci, senza un professore da criticare assieme, senza verifiche da fare, senza la ricreazione ed i compagni che bruciano, senza sabato sera e senza vacanze estive! E’ tutto improvvisamente finito, nel giro di poche, pochissime ore: un mondo costruito in quindici anni, da quando le nostre famiglie ci hanno portati all’asilo ad oggi: una vita in comunità spazzata via nel giro di pochissimo tempo. Una vita finita in poche ore. Ora cosa succederà? Ora che siamo solo numeri in una società, singoli ragazzetti in grandi università da migliaia e migliaia di studenti, punti nel nulla, gocce nel mare… è una visione un po’ angosciante quella che ci si prospetta, non lo dico con enfasi. E’ la fine di una vita, la nostra unica vita sino ad ora, e l’inizio di qualcosa di molto, troppo incerto. Spaventoso, per certi versi.
Solo ora che concepisco l’entità di questa svolta apocalittica, ne ho davvero (un po’) paura.

Si vedrà, la vita è una lunga avventura, una missione da svolgere al meglio dopo tutto: se tante certezze si sgretolano, mille altre si spalancano: una fine è un inizio, e come diceva Papà Cervi, dopo un raccolto ne viene un altro

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