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Venticinquesimo post

Giovedì 20 Agosto, ore 21:30

Oggi tocco un argomento non nuovo, ma che sento essere cardine di questa esistenza: la solitudine. Probabilmente ne avevo già parlato, ne avevo già scritto riflettendo su come la nostra vita, apparentemente aperta alla comunità, si riveli tristemente individuale, schiva, ridotta alla solitudine più profonda. Dico tristemente, perchè questa non è certo per me una situazione piacevole, anche se questo non significa che ne voglia sfuggire. La solitudine, specie in questo ultimo periodo, sta raggiungendo in me il suo apice, la sua totalità: dopo aver perso gli amici, dopo essere uscito dal -seppur squallido- mondo della scuola, ho passato questa estate (e sto passando questa estate) nella totale assenza di simili. Sì, è vero, ho contatti telematici con qualcuno, anche se contatti non certo sinceri e profondi, ma formali e grigi. Certo ho la famiglia, il che annulla di molto la reale solitudine, anzi quasi ne rappresenta l’opposto in quanto mi trovo convinto, molto convinto, nel ritenere che non vi sia più forte legame che quello di sangue, e più forte affetto ed amore tra creatore e creato, tra consanguineo, tra chi ha condiviso sin dalla nascita il pane, l’aria, il tempo, lo spirito.
Manca però, e si sente, la parte “importante”, quella tipica del giovane, cioè la vita assieme ai suoi simili. Rinchiuso volontariamente in casa, ho ormai dimenticato cosa significhi uscire la sera, bere con gli amici, scherzare, fare stupidaggini, ridere assieme ed insomma, vivere con gli altri, con i giovani, con i miei simili. Ho dimenticato quel piacere, quello che un tempo era linfa vitale e che oggi semplicemente non è. Desidero, quasi, isolarmi.
La solitudine è divenuta in me, da situazione da evitare, un obbiettivo da raggiungere. La solitudine totale, lontano dal mondo, dagli amici, dai conoscenti, completamente chiuso in me stesso e con me stesso, senza respirare aria altrui, senza parlare con qualcuno, senza leggere le vite degli altri su facebook o su qualche semi-abbandonato gruppo in chat.
Una disintossicazione, o una intossicazione letale? In tutta sincerità escluderei la seconda, la vita è lunga e sono affamato di persone, di legami, ahimè di affetti… probabilmente questa fase estrema durerà solo questo periodo, poi con l’università molte cose, ne sono convinto, cambieranno. Ma questo momento è carico di riflessioni: chi sono io? Come mi vedono gli altri? Come interagisco con loro e quali codici di comunicazione utilizziamo per tenerci in contatto? Spesso questi codici sono diversi, e me ne accorgo quando è tardi. Sono utili, perchè non si può dire tutto con le parole, per lo meno non in modo esplicito. Una frase ha tanti significati, in base a chi la ascolta, il problema è “chi” appunto. Quel chi ha capito davvero? Ha frainteso? E’ semplice essere odiati, difficile essere apprezzati: la difficoltà e gli errori di linguaggio sono a mo avviso una trappola letale.
Eliminare il linguaggio. Eliminare la comunicazione interpersonale. Apatia, solitudine, noia, vuoto dei sensi: potrebbero essere delle idee da sviluppare. Cosa succederebbe se tagliassi quei pochi fili che mi legano alla vita sociale? Starei meglio, respirerei la libertà dell’essere nessuno e poter fare ciò che desidero senza limiti morali e di “ruolo” nella società in cui veniamo incatenati? O forse, cadrei in profonde depressioni dalle quali non mi rialzerei mai, accelerando quel processo biologico che ci porta inevitabilmente alla morte , la fine del nostro inizio perpetuo? Sono domande interessanti anche se spaventose, per certi versi.
Che faccio?
Io vorrei tagliare quei fili, definitivamente, entrare nella solitudine, essere dimenticato, morire in pratica. Provo piacere quando nessuno sente più parlare di me, e si stupisce che “sia tornato”. E’ una sensazione quasi di vittoria, di libertà, che compensa in minima parte l’oceano di sofferenze che travolge il solo quando non ha più gli scudi e le droghe della società a proteggerlo. Da soli, si perde l’effetto della morfina che la vita di società ci somministra quotidianamente, per supplire alle fatiche ed al male, il male profondo, quello che blocca lo stomaco e distende i muscoli facciali. Dolore della rassegnazione, a 19 anni.
Non voglio finire qui tutto, no. Ma fa male, fa male andare avanti, essere sempre frustato dalla vita e continuarla solo per il gusto di vendetta, l’unico elemento che da veramente grinta ed energia, l’unica fonte della voglia di vivere. Forse è vero, che gli illusi non hanno ancora sofferto abbastanza. E’ vero che chi gioisce è solo un immaturo, un giovane inesperto della vita, che crede ancora che sia bella. Il vecchio, apatico, lui solo sa cosa sia il vivere, l’essere: esso è il dolore. Continuo ed inarrestato.
Ma se per me questa è la vita, se per me questo è l’essere, se io dentro di me vedo solo un mantello nero che, armato di frusta, mi flagella in eterno, allora che speranze ho per il futuro? Come potrò mai instaurare un rapporto se questo è ciò in cui credo? Chi mai, chi mai condividerà con me questa visione, senza considerarla -come fan tutti- un male, una visione distorta ed allucinata della realtà? Sono io l’allucinato, o sono gli altri i ciechi? Questa è la grande domanda. Perchè se come temo non troverò nessuno che riesca a prendermi per quello che sono (niente di speciale, un ammasso di carne che non ama illudersi della vita) allora sarà davvero solitudine. E se la solitudine è sofferenza, allora non avrò vie di fuga. Non posso essere come chi già prima di me decise di chiudere il conto con il peplo nero, non ne ho la facoltà. Ecco, ecco la mia ultima deduzione. La solitudine crea dubbi, dubbi a cui come uomini non sappiamo dare risposta, ed il dubbio insolvibile diviene la più grande fonte di dolore, nei secoli dei secoli
amen.

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